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Channel: Arregodus – A Serramanna
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Ossus ‘e mottu e pabassinas nella notte de Is Animeddas: il bello di conoscere e non dimenticare le tradizioni

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Is Animeddas

Il 31 ottobre si festeggia Halloween.  Ci si traveste e ci si trucca, si decora la  casa, feste, giochi, i bimbi che chiedono caramelle, una sorta di carnevale dei mostri. Il nome deriva dall’inglese: il 1° novembre, giorno di Ognissanti (Tutti i Santi), in inglese viene detto “All Saint’s Day”, la vigilia, ovvero la notte del 31 ottobre “All Halloweed Eve” (ossia Vigilia di Tutti i Santi) , che poi è stato abbreviato in Halloween, e ha origine da una leggenda che narra dell’incontro tra un uomo e il diavolo.

Sting Jack era un beone che viveva in Irlanda, giocava, aveva molti dediti e fece un patto con il diavolo: gli vendette l’anima per pagare i suoi debiti. Si incontrarono  durante la notte del 31 ottobre e Jack offrì da bere al diavolo, egli accettò ponendo una condizione, ossia  che pagasse Jack. L’uomo astuto mise allora  in dubbio che il diavolo si potesse trasformare in qualsiasi cosa volesse, gli chiese con scherno di trasformarsi in una moneta e quando il diavolo lo fece, Jack prese la moneta, se la mise in tasca vicino a una croce d’argento impedendo così al diavolo di riprendere le sue forme.

Il diavolo allora  propose un accordo all’uomo: se lo avesse liberato avrebbe lasciato in pace Jack per un anno. Jack accettò pensando di riuscire a diventare una brava persona, di smettere di bere, di accudire la famiglia, in modo che il diavolo non potesse cercar più nulla da lui.

Così non fu, Jack non riuscì a cambiare la propria vita, e l’anno successivo, sempre la notte del 31 ottobre il diavolo  tornò a prendersi Jack. Anche questa volta l’astuto uomo riuscì ad ingannare il demonio, ma l’anno successivo morì. Gli fu negato l’accesso al Paradiso, ma anche all’Inferno, il diavolo infuriato per essere stato ingannato lo rispedì sulla terra a peregrinare come un’anima in pena. Mentre l’uomo vagava tra le tenebre raccolse una rapa per  cibarsene, ma il diavolo gli lanciò un pezzo di carbone ardente dall’Inferno, che Jack, disperato prese per illuminare il suo incessante cammino tra le paludi  alla ricerca di una pace che non trovò mai.”

Più tardi la rapa fu sostituita nella tradizione popolare da una zucca e da qui nacque la leggenda di Jack-O-Lantern.

Le origini di Halloween risalgono ai Celti, antico popolo che abitò Francia e Inghilterra circa 2000 anni fa.

I Celti credevano che il 31 ottobre, per loro giorno della vigilia del nuovo anno, gli spiriti malvagi dei defunti tornassero in vita per seminare il panico e la paura tra gli esseri viventi.  I festeggiamenti avevano lo scopo di placare gli spiriti.

La Festa religiosa di Ognissanti in realtà non ha nessuna attinenza con Halloween, come magari in apparenza potrebbe apparire, in quanto Ognissanti ha avuto origine nella Chiesa Cattolica nel 840 D.C. circa, indetta da Papa Gregorio IV.

Inizialmente si celebrava  nel mese di maggio  poi la data fu spostata al 1° novembre da Odilio de Cluny nel 1048, con l’intento proprio di sovrapporsi e contrastare  l’antico culto dei druidi celtici.

A causa della leggenda, delle sue origini e del fatto che secondo le antiche “leggi della stregoneria“ il 31 ottobre è un giorno strettamente connesso con la magia e il satanismo, questa giornata è stata enfatizzata: la paura,  la morte, gli spiriti, la stregoneria, la violenza, i demoni, tutto contribuisce a rendere questa data attraente per tanti.

Qui in Italia da qualche anno  si è fatta nostra una festa che in realtà non  appartiene alla nostra cultura, se ne parla nella scuole, si ritagliano zucche, si travestono i bambini.

Da noi vi è  soprattutto l’aspetto commerciale che si mette in moto per vendere dolci, vestiti e decorazioni, in quanto sono ben poche le persone che sanno che cosa sia la festa di Halloween, il culto della morte nella sua essenza originale, ma in realtà  solo una mascherata dei bambini che girano per le case a chiedere dolci, di adulti che si travestono e festeggiano senza sapere che cosa.
Attualmente, in tutta Italia, i bambini nei giorni che precedono e seguono la giornata di Ognissanti, hanno ripreso a passare di casa in casa col classico intercalare “dolcetto o scherzetto?”, frase derivata chiaramente dalla moda d’oltreoceano di Halloween.

Is Animeddas

Anima del Purgatorio – pietra scolpita

Anima del Purgatorio [Museo di Sant'Angelo - Memorie e tradizioni religiose di Serramanna]

Molti lo ignorano, ma sarebbe bello che, soprattutto i bambini sardi, sapessero che questa “rituale”, divertente e piacevole è un’usanza che appartiene da molti secoli alla tradizione sarda e andrebbe recuperata dalla proprie radici; non è quindi un prendere un qualcosa da usanze di altre culture e tradizioni, ma piuttosto un Riprenderle, consci che sono reminiscenze di antiche tradizioni dei nonni dei nostri nonni.

Rispetta i mottus e timmi i bius” recita un antico detto sardo.

In Sardegna, la venerazione dei morti è strettamente legata al cibo, in particolar modo alla creazione e al consumo di dolci; ha luogo nei giorni che vanno dal 31 ottobre fino al 2 novembre, e viene comunemente chiamato “Is Animeddas”, ovvero “culto delle anime (del Purgatorio)” e in base alle zone in cui si celebra assume nomi diversi, come ad esempio nel nuorese assume la nomea di “Su Mortu Mortu”.

Cambia la denominazione ma non la sostanza, infatti l’attenzione è rivolta essenzialmente alle anime che stazionano ancora nel Purgatorio, in attesa di giudizio perché ancora impure per via di colpe non del tutto espiate, che impediscono alle anime di varcare la soglia del Paradiso. Da tradizione, sono le preghiere dei vivi ad aiutare l’ascesa delle anime verso la beatitudine eterna, pertanto, ogni famiglia si preoccupa, durante questi giorni, di “agevolare” l’anima di qualche loro caro.

Il giorno di Ognissanti è un momento particolare: la distanza e il contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti quasi si annulla e, grazie alle preghiere e ai gesti compiuti dai vivi, le anime dei defunti possono raggiungere il Paradiso.
Parrebbe siano proprio i bambini, ad aiutare in questo i morti, chiedendo dolci, frutta secca e preghiere in suffragio delle anime dei defunti; preghiere, cibo per l’anima, ma ciò che colpisce sono i dolcetti, cibo per il corpo!

Anche a Serramanna, la sera del 1 novembre, si usava preparare una cena più abbondante del solito, per poi lasciare la tavola apparecchiata e con ancora del cibo, offerto per le anime che sarebbero venute a far visita alle loro vecchie abitazioni.

La pastasciutta, in particolare, doveva essere fatta a mano: con il pollice e senza l’uso di strumenti di legno, rame o ferro; doveroso lasciare sulla tavola la brocca dell’acqua. Non doveva essere lasciata alcuna posata sul tavolo, perché, si diceva che potevano essere sconosciute a seconda del tempo in cui le anime avevano vissuto sulla terra, così come era assolutamente indispensabile non lasciare coltelli in giro, in quanto un anima eventualmente indispettita o con pendenze insolute avrebbero potuto farne cattivo impiego, o avrebbe potuto tentar di portar via con sé un parente al quale era stata particolarmente affezionata o legata.
Un’altra rigida precauzione era quella di non chiudere a chiave porte, cassapanche e bisognava lasciare le ante, gli sportelli e i cassetti delle credenze aperti per dare alle anime in visita la possibilità di prendere qualunque cosa di loro gradimento.

Madonna del Suffragio con le anime del Purgatorio - bottega di Giuseppe Antonio Lonis, dentro nicchia di Juan Espiga, sec. XVIII (1774)

Madonna del Suffragio con le anime del Purgatorio – bottega di Giuseppe Antonio Lonis, dentro nicchia di Juan Espiga, sec. XVIII (1774) [Museo di Sant'Angelo - Memorie e tradizioni religiose di Serramanna]

Ovviamente, a meno di qualche burla opera di un “vivo” la cena rimaneva integra e la mattina seguente veniva offerta ai poveri del paese. A partire da mezzogiorno del 1 novembre e fino al mezzogiorno del giorno seguente, le campane “toccanta a mottu” e gli abitanti potevano andavano al campanile per portare da mangiare e da bere ai campanari, e talvolta si intrattenevano a mangiare assieme a loro.

Oggi fa sorridere che si “praticasse” questo rito, soprattutto considerando che uno spirito non ha bisogno di entrare o uscire utilizzando passaggi aperti, appunto perché essendo etereo potrebbe facilmente attraversare muri e porte. Chissà se ingenuamente non ci si pensava, o forse era più forte il “mellusu a timmi che a provai” e si procedeva in ossequio alla tradizione senza farsi troppe domande.

Prima della cena, i bambini andavano in giro per il paese a bussare alle porte, dicendo “seus benius po is animeddas” e ricevendo in cambio dolcetti, frutta secca e in rarissimi casi, denaro.

La forte tradizione dolciaria sarda che si legava a questa “festa” esiste tutt’oggi. Ricca e varia, ma come base ha principalmente la sapa (“sa saba”, prodotta tramite la cottura del mosto, che regala ai dolci un colore scuro, quasi nero di terra, in perfetta armonia cromatica con il periodo che ci si accinge a festeggiare).

“Sa saba” (mosto cotto)

Ingredienti: acini di uva bianca

Procedimento: schiacciare gli acini e far colare attraverso un setaccio il mosto in una pentola di alluminio. Iniziare la cottura a fuoco lento e schiumare di tanto in tanto la schiuma che affiora in superficie. Quando il liquido sarà dimezzato la cottura può considerarsi ultimata.
Per controllare la giusta consistenza , basta far cadere una goccia di mosto cotto su una superficie piatta, passarvi in mezzo il dito e se “la goccia” che si è formata non si richiude, la cottura può considerarsi ultimata.

Pan’e’saba

IS Animeddas (4)

Ingredienti:
500 grammi di farina
1 bicchiere di sapa
200 grammi di uva passa
200 grammi di noci
50 grammi di pinoli
50 grammi di mandorle spellate
25 grammi di lievito di birra
10 grammi di cannella
sale quanto basta

Sciogliete in acqua tiepida il lievito di birra, si unisce in una terrina alla farina ed alla sapa, versata a pioggia ed amalgamata a mano. A parte, sminuzzate la frutta secca e lasciate ammorbidire l’uva passa per qualche minuto in acqua fresca.
Scolata l’uvetta, unitela assieme alla frutta secca all’impasto, aggiungendo il sale e la cannella, ed impastate ancora fino ad ottenere un composto morbido e uniforme. A questo punto lasciate riposare l’impasto per due ore circa, coprendolo con una coperta di lana.
Dopo la lievitazione, dividete l’impasto in panetti più piccoli e infornateli; l’ideale sarebbe avere a disposizione un forno da pane, ma per la versione “casalinga” è sufficiente una teglia o degli stampi imburrati con forno caldo (200°) e cottura di un’ora circa.
Quando è ancora tiepido, spennellate i pani con altra sapa e, a piacere, guarnitelo con palline o treccine di zucchero e mandorle in superficie.

Pabassinas

IS Animeddas (3)

(Ricetta tratta da: http://www.ricetteecooking.com)

Ingredienti:
2 kg. di farina
500 g. di zucchero
300 g. di strutto
300 g. di mandorle
200 g. di noci
300 g. di uva passa
50 g. di semi di anice
40 g. di ammoniaca per dolci (da acquistare in farmacia)
Due limoni (la scorza grattugiata)
Due arance (la scorza grattugiata)

Per la glassa:
400 g. di zucchero
Una chiara d’uovo

Per guarnire:
Granella di zucchero colorata q.b.

Versare in una terrina la farina, lo strutto ammorbidito a temperatura ambiente e mescolare, aggiungendo un po’ di acqua fredda (tanta quanta ne serve per amalgamare bene tutti gli ingredienti); unire quindi l’uvetta (precedentemente ammollata 20 minuti in acqua tiepida e poi strizzata ed asciugata con della carta assorbente da cucina), la scorza dei limoni e delle arance grattugiata, i semi di anice, lo zucchero, le mandorle e le noci precedentemente tritate e, per ultimo,l’ammoniaca.

Dopo aver infarinato leggermente il piano di lavoro, tirare una sfoglia alta poco meno di un centimetro e, con una formina, tagliare i biscotti a forma di rombo; disporli sulla piastra del forno precedentemente rivestita con della carta da forno e fare cuocere a 180-200° fino a quando non assumono sulla superficie un leggero colore dorato.
Una volta raffreddati, debbono essere guarniti con una glassa bianca che si ottiene procedendo nel seguente modo: mettere in un tegame lo zucchero con un po’ d’acqua fredda (il tanto da inumidirlo e renderlo come una pasta colante) e farlo cuocere a fuoco basso sino a quando comincia a filare e la goccia rimane ferma nel cucchiaio; a questo punto, unire la chiara d’uovo precedentemente montata a neve ferma.

Con la glassa così ottenuta, rivestire quindi la superficie dei biscotti e guarnire distribuendovi sopra qualche granellino di zucchero colorato.

Ossus ‘e mottu

(Ricette tratte da: http://www.alberghierogramsci.gov.it)

Ingredienti
1 kg di mandorle tagliate a fettine sottili e tostate
600 gr di mandorle macinate
40 gr di cannella
2 limoni
800 gr di zucchero
16 albumi montati a neve

Preparazione
Mescolare tutti gli ingredienti in una terrina, montare gli albumi a neve ed incorporare all’impasto finché non assume una consistenza né troppo morbida né troppo asciutta, modellare con le mani in modo da ottenere dei piccoli triangoli, o nella forma più conosciuta, cioè stringendo un po’ di composto nel pugno e stringendo le dita si otterrà una forma allungata. Cuocere ad una temperatura di 160-165 gradi per 25-30 minuti circa e spennellare con lo sciroppo di zucchero; decorare con una sottile striscia di doratura. (Anna Maria Sarritzu)

Preparazione 2
In un recipiente capace frullate gli albumi con lo zucchero a neve fermissima; quando lo zucchero sarà completamente sciolto aggiungete un kg di mandorle affettate sottoli e tostate, 100 gr di mandorle macinate finemente, la cannella e la scorza grattugiata dei limoni.

Amalgamate bene; quindi prendete una noce di impasto tenendola nel palmo della mano, stringetela, senza che esca ai lati del pugno, fino a lasciarci il segno delle dita; non eccedete poiché il dolce non deve essere troppo schiacciato, bensì assumere la forma di un piccolo osso.
Disponeteli distanziati sulla carta da forno, cuocete a 170 gradi per 20 minuti.Lasciateli freddare bene prima di toglierli dalla teglia poiché saranno friabili; quindi glassateli.
La glassa va preparata con uno sciroppo quasi glassato: si tiene lo sciroppo a fuoco molto basso e si pone a bollire in un altro recipiente più piccolo della semplice acqua; si indossano dei guanti di cotone onde evitare scottature tenendo il dolce sopra il tegame con lo sciroppo a mesu puntu, spennellate con un pennello largo: dapprima 2 volte nella superficie inferiore e 3 volte in quella superiore, indi riponete su un vassoio e decorateli con s’indoru prima che asciughino.
Affinché lo zucchero filato non cristallizzi aggiungete di tanto in tanto un po’ d’acqua bollente prelevata dal piccolo recipiente, e riportatelo alla densità desiderata. (Rosalba Lecca)


Madonna di Fatima a Serramanna: video e fotografie dell’arrivo

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Lo scorso 5 ottobre il simulacro della Madonna Pellegrina di Fatima è giunto a Serramanna, presso la parrocchia di Sant’Ignazio da Laconi per una visita della durata di 9 giorni.

E’ arrivata verso le 0re 17.00 nel piazzale di fronte al cimitero. Alla processione presso via Crispi, via Costituzione, via P. Umberto, Via Gobetti, Via Cavour, Via Cairoli, Via Damiano Chiesa, Via Serra, Via Trento, vico Giotto, Via Giotto e Viale Sant’Ignazio è seguita la Messa solenne.

Vi proponiamo ora un breve filmato e una corposa galleria fotografica dell’evento. È d’obbligo un grande ringraziamento a Andrea Erba, Laura Serra e Maria Cristina Batzella per gli scatti e a Gianfranco Batzella per il montaggio video.

Chi fosse interessato alla versione completa del filmato, dove in più di due ore si racconta l’esperienza vissuta dalla comunità serramannese in tutte le nove giornate di permanenza della Madonna di Fatima, può rivolgersi in Parrocchia o all’Associazione Sant’Ignazio da Laconi.

Filmato

Galleria fotografica

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Su Carr’e Nannai

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Sulle sue origini vi sono ancora molto dubbi. Racconta la leggenda che tale Nannai possedesse un carro tutto scassato, a tal punto che, passando nella strada, faceva un chiasso infernale (racconti che si perdono nella notte dei tempi quando le strade non era ancora asfaltate); il fracasso, udito da lontano, ricordava molto il rombo del tuono, da questo trae origine il tradizionale detto popolare “Teh, su carr’e Nannai!”, quando si avvicina un temporale.

Circa il termine Nannai, si intenderebbe il TUONO, dove NANNAI, nello specifico, sta per DIO PADRE (o meglio DIO NONNO, che per i sardi, soprattutto in tempi nemmeno tanto remoti, era più importante del padre – per i giapponesi pare lo sia tutt’ora). Quindi pare sia comunemente riconosciuto che “Nannai” non sia un personaggio in sé, bensì la semplice traduzione dal campidanese di “nonno”.

Quindi, quando c’erano dei temporali talmente forti da far tremare persino i vetri delle finestre e tuonava fragorosamente, per tranquillizzare i bambini, si diceva “Itta prangisi? No d’intendisi ke’ su carru ‘e nannai!” (“Perché piangi? Non senti che è il carro di nonno!); soprattutto in passato molte famiglia possedevano il carro.

Vico Mossa è di nuovo tra noi

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Comune-di-Serramanna-03-Vico-Mossa

Si è concluso il 6 dicembre scorso, nella sala conferenze dell’ Ex Mattatoio, il convegno internazionale CULTURE FESTIVAL (VII edizione) per la Sezione Architettura – Idea terrae 2014, ospitato dal comune di Serramanna, membro dell’Associazione Nazionale Città della terra cruda.
Iniziato il 3 mattina, ha visto una nutrita presenza di tecnici interessati alle molteplici problematiche connesse all’architettura e all’urbanistica sostenibili e all’utilizzo di materiali naturali locali.

Il CULTURE FESTIVAL, questo è il nome dell’evento con cui è stato indicato sul dépliant, non ha attirato o suscitato la curiosità dei cittadini serramannesi, forse anche perché fuorviati dal titolo che, peraltro, potrebbe far pensare a tutt’altra materia. Difetto di comunicazione ai cittadini? Idiosincrasia di questi verso la materia specifica? Comunque sia, è una premessa preoccupante per il futuro del nostro centro storico o, per dirla tutta, di ciò che finora si è salvato del paesaggio di “una antica comunità del Campidano” (è il titolo dato da Vico Mossa alla relazione da lui tenuta a Serramanna il 27 ottobre 1984)

Ma non è saggio cedere al pessimismo e disperare.

Certo, per l’Amministrazione Comunale che ha fortemente voluto questo evento, fin dal 7 dicembre ha preso il via una importante scommessa. Le persone serie mantengono le promesse e noi, cittadini seri, le attendiamo. Perché, ne siamo consapevoli, i risultati verranno se le Amministrazioni Pubbliche sapranno e vorranno raggiungerli. Del resto, ormai è una questione d’onore, non foss’altro che per dimostrare agli Eredi di Vico Mossa che la donazione dell’archivio dell’Architetto, un importante patrimonio epistolare e progettuale e “una preziosa raccolta iconografica di architetture collettive della Sardegna degli anni Cinquanta” (dalla presentazione dell’evento, a cura dell’ arch. Alceo Vado) sono finite in buone mani.
Ma se il cittadino distratto ha disertato questi incontri, i Serramannesi attenti ed estimatori di Vico Mossa e delle serate culturali in genere, non si sono persi l’appuntamento conclusivo, tutto dedicato all’Architetto nella sua veste di scrittore de “I Cabilli”, in cui egli “ si racconta” e racconta scene di vita familiare della prima metà del 1900, in ambienti domestici che alcuni di noi ancora ricordano (ma siamo, ormai, in pochi!) E’ un mondo idilliaco, ormai obsoleto e rifiutato dalle giovani generazioni, alla ricerca di stili di vita e di materiali da costruzione che nulla hanno a che vedere con le innovazioni sostenibili su cui era incentrato il convegno.

La prof. Maria Grazia Cossu, docente di Letteratura Italiana e presidente dell’associazione culturale “Il Pungolo”, ha fatto una bellissima e puntuale relazione sulle figure femminili del romanzo accanto alle quali è vissuto il piccolo Vico e tutto il suo gruppo familiare e, per chi già conosceva le “fotografie d’architettura”, è stato facile l’accostamento tra la prosa del romanzo e i paesaggi delle foto.
La serata del 6 dicembre è stata una tappa importantissima di un lungo cammino, iniziato dall’Amministrazione Comunale di Serramanna nel 1984. Esattamente 30 anni fa, l’Architetto. Invitato a partecipare al nostro “Ottobre Culturale”, accettò di buon grado e ci intrattenne piacevolmente con una relazione dal titolo “Luci di una antica Comunità del Campidano”, di cui possiedo anche la registrazione vocale. Io ero, allora, assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura di Serramanna, giovane di età e di esperienza amministrativa, seduta a fianco ad un personaggio per me mitico, ho avuto modo di constatare quanto fosse “speciale” nella sua semplicità e nella sua forza comunicativa, tanto che io, che sono in genere molto emotiva, dimenticando i miei limiti di inesperienza e di temperamento, riuscivo a condurre in porto la bellissima e memorabile serata con grande soddisfazione di tutti.
Nel corso di quell’incontro ho capito quale profondo significato abbia sempre avuto il campanile di S. Leonardo e lo spazio circostante per il bambino, prima, per il giovane profondamente innamorato del suo paese, poi, e per lo studioso di architettura che riesce a penetrare, illuminandoli, gli angoli più nascosti dei paesaggi, valorizzandone i particolari che ai profani sfuggono.

Ho capito in quel piacevole incontro… e da quel momento l’idea è andata maturando in me finché, nella mia qualità di sindaco (1993/1997), ho avuto la possibilità di proporre alla mia Giunta un’impresa che, per molti, era solo uno scandaloso capriccio o una pazzia.
Il Consiglio Comunale, investito del problema, non senza qualche esitazione iniziale, approva, con grande soddisfazione del crescente numero di sostenitori, l’eliminazione degli ultimi tre piani del palazzo Pintus, in Piazza Martiri. Il campanile di S, Leonardo riconquista la sua visibilità, la sua luce e i suoi spazi.

L’architetto Vico Mossa ha vinto e, con lui, la Comunità serramannese.

Si son riallacciati così i rapporti tra lui e noi. La sua lettera, pervenutami in quella circostanza, dice tutta la sua soddisfazione per un risultato che anch’egli, negli anni ’60, aveva tentato di raggiungere. Sia ben chiaro: non vogliamo accampare diritti o meriti speciali se non quello di aver aperto la strada al ritorno a casa, fra i suoi concittadini, di uno studioso illustre, innamorato del suo villaggio natio. Nella casa in cui è nato e ha vissuto, ora è stata affissa una targa commemorativa e, molto opportunamente, gli è stata dedicata anche la sala dove si è svolto il convegno dal 3 al 6 dicembre.

Va da sé che ci aspettiamo che venga mantenuta anche la promessa fatta dal sindaco Alessandro Marongiu sulla ristampa del romanzo “I Cabilli” che, come ben abbiamo compreso, è, anch’esso, un “prezioso archivio in prosa” di quel mondo poetico e artistico finora misconosciuto o sottovalutato.
Si dice spesso, ed è profonda verità, che da cosa nasce cosa. In quel lontano ottobre del 1984, chi avrebbe mai scommesso sugli sviluppi incredibili di quella serata tra vecchi amici ritrovatisi?

Ma, a pensarci bene, in effetti il personaggio garante del successo di allora e di oggi, c’era fin da allora: era Lui, l’architetto! A noi, Amministratori e Cittadini di allora, resta il merito, mi permetto di ripeterlo, di avergli dato l’occasione di tornare nel suo “mondo” perché potessimo stringergli la mano.

Maria Porceddu Ortu
Serramanna, 13 dicembre 2014

Inaugurato il Presepe artistico in movimento di Sant’Ignazio

Una vista insolita su Serramanna: video dell’incontro con Paolo Casti

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serramanna insolita unitre 20 dicembre

Il 20 dicembre si è tenuto l’incontro con lo scrittore Paolo Casti, organizzato dall’UniTre di Serramanna, dove si è parlato di “una vista insolita su Serramanna attraverso storia, leggende, curiosità, persone e luoghi“, con un approfondimento sulla storia del Conte di Serramanna alla vigilia del 400° anniversario.

La serata è stata coordinata dalla Dott.ssa Adriana Puddu, vicepresidente dell’UniTre, e ha visto la partecipazione di Riccardo Chia, presidente dell’Associazione “Anni d’Argento” e del consigliere comunale Dott. Guido Carcangiu.

Paolo Casti ha presentato, per la prima volta pubblicamente, la trilogia di “Serramanna insolita – fatti, curiosità e ricerche ” raccontando attraverso numerose ricerche inedite, affascinanti storie e curiosità distribuiti in quasi 400 anni riguardanti, personaggi del presente e del passato che hanno contribuito a dare lustro al suo paese natale.

Filmato dell’evento

Ecco il video della serata. E’ possibile scaricare le slide cliccando qui.

Intervento del Presidente dell’Ass. Anni D’Argento

serramanna insolita unitre

Buonasera a tutti i presenti.

Sarò brevissimo premetto,

benvenuto al signor Sindaco (Sergio Murgia, ndr) sempre presente alle nostre attività, all’assessore Giulio Cossu, ai consiglieri presenti, qui a fianco il signor Guido, benvenuto al nostro concittadino Paolo Casti, che oggi ci onora della presentazione dei suoi scritti sulla storia di Serramanna,

Come vedete anche a Serramanna ci sono le eccellenze, non avevo dubbi comunque, a volte c’è titubanza a proporsi ma una volta rotto il ghiaccio son convinto diventerà tutto più facile.

Bisogna sfatare il detto che “nessuno è profeta in patria”, credici Paolo!

Grazie per il tempo che ci dedicherai.

Riccardo Chia, Presidente dell’Associazione Anni d’Argento
e dell’Università della Terza Età di Serramanna

Intervento del Cons. Carcangiu

guido carcangiu serramanna

Ritengo che , in quanto Serramannese, sia doveroso esprimere all’amico Paolo la mia  personale gratitudine e quella di tutta l’Amministrazione Comunale per il suo decennale impegno profuso nel divulgare, valorizzare, creare dibattito intorno a Serramanna ed alle sue risorse artistiche, storiche, culturali e sociali.

Ritengo, e riteniamo, che le persone, gli appassionati, i volontari come Paolo siano da considerarsi un esempio di cittadinanza attiva, partecipe, convinta del valore della propria comunità di appartenenza e decisa a renderle onore.

La cultura, l’approfondimento storico, sono beni da considerarsi preziosi di per sé, lo sono ancora di più allorquando producono benefici tangibili a coloro che ne usufruiscono.

In tempi come questi, dove l’appiattimento culturale e la massificazione delle individualità sono istanze fortissime che ci vengono propinate da tutta una serie di potenti ripetitori pseudo-culturali, l’opera genuina e appassionata di Paolo e di numerosi altri si configura come un baluardo a cui affidarsi per conservare la nostra memoria comunitaria, le nostre radici culturali e, conseguentemente, la nostra identità sociale.

Ogni giorno che passa, il sottoscritto e tutta l’amministrazione sperimentiamo direttamente quanto sia diffuso questo grande amore per la nostra comunità e ci sentiamo, grazie ai nostri volontari, ai nostri concittadini attivi, orgogliosi di essere chiamati a rappresentarla.

Recentemente, ho avuto il grande onore di rappresentare l’amministrazione durante la giornata conclusiva delle celebrazioni del centenario della nascita di Vico Mossa; in quell’occasione ho parlato delle nostre radici, di quanto sia un dovere far conoscere alle nuove generazioni la nostra storia, le nostre peculiarità artistiche, culturali e sociali. Oggi, nel ribadire gli stessi concetti, sottolineo anche che ciò che noi siamo stati, in un passato più o meno remoto, circoscrive la nostra identità attuale e costituisce non solo ciò che noi siamo, ma anche ciò che saremo, sia nel concepire noi stessi in quanto individui ed in quanto comunità, sia nel rapportarci con gli altri.

Ringrazio inoltre la Dott.ssa Adriana Puddu, l’Unitre e l’Associazione Anni d’Argento per aver organizzato questa bella serata di cultura e di dibattito.

Ringrazio infine Paolo, per essersi deciso finalmente a presentarci i suoi bellissimi lavori, per tutto quello che in questi anni è riuscito a fare e per questo sicuramente interessante pomeriggio.

Buon Lavoro a Tutti.

Dott. Guido Carcangiu, consigliere comunale con incarico
ad archivi, biblioteche e beni culturali.

Ringraziamenti dell’autore

È sempre arduo scrivere dei ringraziamenti per molteplici motivi.

Innanzitutto perché son tante le persone che hanno contribuito a formare la persona che sono oggi ed è quindi impossibile elencarle tutte e poi perché si ha sempre paura di dimenticare qualcuno o qualcosa.

L’impegno e la passione che ho profuso per la stesura dei miei libri non son stati probabilmente sufficienti a creare un quadro esaustivo di quella che è stata, è e sarà la realtà di Serramanna e molte sono le cose che mi sarebbe piaciuto approfondire, ma non sempre è possibile e fattibile fare ciò che si desidera.

La mia speranza è che sia comunque riuscito a dare un contributo alla conoscenza e alla memoria storica del nostro paese e di essere stato all’altezza di quanto mi prefissai di fare, ovvero mettere la mia passione al servizio della comunità.

Ringrazio la Dott.ssa Adriana Puddu per avermi coinvolto in questa conferenza e il presidente dell’UniTre di Serramanna per aver avuto parole di stima nei miei confronti e nei confronti del mio lavoro; così come voglio ringraziare Gianluigi Piano, dal momento che mi è stato rivelato che è lui il vero “colpevole” del mio coinvolgimento in un dibattito pubblico.

Ringrazio tutti coloro che hanno voluto partecipare a questa serata divulgativa, in primis gli amici miei primi sostenitori Davide Batzella, Samuele Pinna e Guido Carcangiu, il quale, nella sua veste di consigliere comunale con delega ai Beni Culturali, Biblioteche e Archivi è stato prodigo di belle parole nei miei confronti.

Ringrazio Giulio Cossu e il sindaco Sergio Murgia per esser stati presenti sia come amministratori che come amici, così come la mia famiglia e i miei parenti vero punto di forza per aiutarmi moralmente ad affrontare questo mio resoconto.

Un grazie anche al Professor Giuseppe Marras (docente presso il Liceo Classico “E. Piga” di Villacidro) che sul finire, chiamato in causa, è intervenuto deliziando il pubblico con nozioni interessantissime a supporto delle mie ricerche.

Spero in futuro di avere sempre la passione, la voglia e gli stimoli per continuare a prodigarmi in tali ambiti e con le stesse persone con le quali ho avuto il piacere e l’onore di collaborare per queste ricerche.

Durante l’incontro ho dimenticato di dire tante cose ma in compenso ne ho detto alcune che non mi ero segnato, mea culpa, ma come ho più volte ribadito non mi trovo a mio agio a parlare in pubblico, spero non me ne faccia nessuno una colpa.

Grazie a chi è stato parte integrante del pomeriggio del 20 dicembre:

Ilaria Piras, Noemi Lisci, Luciano Lixi, Alba Melis, Anna Rita Serra, Salvatore Casti, Adriano Casti, Tore Pilloni, Serena Matta e Paolo Cadoni, Eugenio Nocco, Bruna Atzori, Giovanni Dessì e la moglie, Flaviano Ortu, Debora Zucca, Fulvia Zucca, Franca D’oca, Antonio Ignazio Carboni e Fiorella Lisci, Dolores Sedda, Silvia Pusceddu, Andrea Erba, Simone Lasio, Ermelinda Frongia, Francesca Murgia, Lucio Ortu, Antonio Mura, Dino Lisci e Concetta Carchedi, mia moglie Claudia e tutti gli altri di cui non so il nome.

Grazie anche a chi avrebbe voluto esserci, ma non ha potuto:

Flavia Inconi, Mattia Pani, Roberto Podda, Don Giuseppe Pes, Lalla Cilloco, Claudia Saba, Sabina Pisano, Anna Luana Tocco, Maria Antonietta Tocco, Vinicio Putzolu, Giampaolo Batzella, Luigi Cicuttini, Mauro Lasio, Efisio Nocco, Cristian Sanna, Cosimo Sale, Alba e Pietro Todde e Sergio Steri.

Vorrei ringraziare anche il ricercatore ed esperto di storia militare Silvio Tasselli, lo storico tedesco Hellmut Haasis, il professor Celestino Soddu, la senatrice Manuela Serra e lo stesso Luis Crespì del Valldaura, Conte di Serramanna, che pur avendo gradito partecipare son stati impossibilitati a farlo.

Mi dispiace per chi avrebbe potuto esserci ma ha perso l’occasione…

Paolo Casti

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Inveritas Project: Online il primo documentario sulle realtà imprenditoriali serramannesi

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Il Progetto Inveritas è stato presentato nell’ultima edizione de Sa Passillada (clicca qui per l’articolo) lo scorso 21 Settembre. A distanza di qualche mese è stato quindi rilasciato ufficialmente il primo documentario delle sei realtà aziendali serramannesi (fondatrici del progetto parallelo www.serramannaimpresa.it in fase di realizzazione) che hanno abbracciato in toto il progetto realizzato e concepito da Marcello Carlotti (qui la sua intervista) e Fabrizio Palazzari.

Di seguito pubblichiamo il comunicato stampa di inveritas.it e il relativo primo video dedicato alla Studio-A Automazione. Buona Visione

Inveritas è lieta di annunciare che è online il primo documentario antropologico della serie inveritas business. Il progetto inveritas è nato dalla coraggiosa sinergia di antropologia e management per creare valore attraverso i valori e scoprire nuove forme per raccontarsi, organizzarsi e comunicare in termini di verità.

L’esplorazione antropologica della struttura organizzativa e dei valori culturali profondi, tramite un documentario, frutto di una coproduzione di lucmaria mc communications ed inveritas.it, con il fondamentale contributo di Studio-A Automazione, Frongia legnami, ARPOS, Sardex, Lasio ricambi e macchine agricole e MULSE, genera i dati utili allo storytelling aziendalee a ridisegnare la comunicazione lungo le direttrici interno-esterno. Verso l’esterno in termini di social marketing e tribal networking. Verso l’interno accordandosi al Values Based Budget e alla Values Lead Organization, tramite cui i valori intrinseci progressivamente scoperti implementeranno la consapevolezza e la funzionalità organizzativa del modello manageriale.

E’ dalla costante ricerca di Fabrizio Palazzari, co-founder Inveritas, che nasce la sintesi, tra elaborazione teorica e declinazione pratica, raggiunta dal modello consulenziale Inveritas: creare costantemente nuova conoscenza manageriale mentre, al contempo, si implementano le soluzioni alle criticità emerse con la ricerca antropologica.

Per Inveritas, infatti, il management non è solo una scienza che procede per astrazioni, ma è anche una pratica che sperimenta soluzioni a problemi concreti, per trasformare la complessità in semplicità e per progettare il futuro. E’ questa la sfida che le prime sei imprese serramannesi hanno saputo cogliere, facendo proprio il principio che solo con la passione, l’entusiasmo, la fiducia e la consapevolezza è possibile generare reale crescita.

Con il determinante contributo dei Champions è così nato il brand territoriale serramannaimpresa.it. Se le storie devono creare un mondo in cui l’ascoltatore (cliente) vorrà tornare, lo storytelling non può essere un’azione isolata. Il portale delle imprese diventa lo spazio che progressivamente si arricchirà di tutti i 6 documentari inveritas business per fare in modo che tutti gli interlocutori possano partecipare alla narrazione in una rete sempre più ampia. Come nei nodi di una synapsis espansiva ed inclusiva, infatti, ogni documentario non viaggerà isolato, ma rimanderà costantemente agli altri. Questo è il Tribal Networking alla base del Social Marketing, nell’ambito di una strategia conoscitiva e comunicativa autoriflessiva che rimette al centro dell’attività la cultura organizzativa riconoscendo la centralità delle imprese, delle comunità, dei loro valori in una progressione dalla verità alla consapevolezza.

Intervista a Anna Ortu Dessì, nata a Cagliari nel 1933, sfollata a Serramanna nel 1943

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Süditalien, Häuserruinen

Quali sono i suoi primi ricordi?

Sono quelli della mia infanzia trascorsa in una bella famiglia numerosa. Mio padre era finanziere e mia madre casalinga. Durante la guerra eravamo sei fratelli, ma nel 1943 mia madre aspettava il settimo figlio. Abitavamo in via S. Giorgio nel quartiere di Stampace, proprio vicino alla Clinica “Aresu” dove si trovava un rifugio antiaereo.

Qual è il primo ricordo che ha della guerra?

Quello dei bombardamenti che iniziarono nel 1943. Ricordo molto bene, anche se ero solo una bambina, quello che successe nel gennaio di quello stesso anno: io e mia sorella stavamo risalendo la via S. Giorgio per andare a prendere il fratellino più piccolo all’asilo. A metà strada fummo investite dal boato prodotto da uno spezzonamento. Io rimasi senza una scarpa ma iniziai a correre trascinando mia sorellina. Non mi venne neanche lontanamente in mente di tornare indietro a recuperare la scarpa. Feci molto bene perché sarei stata di sicuro colpita da qualche scheggia. Quando arrivammo all’asilo le suore ci rincuorarono: io e mia sorella eravamo molto spaventate. Ma, una volta passato lo spavento, il mio primo pensiero fu quello di dover rientrare a casa con una sola scarpa e di cosa avrei detto a mai madre visto che non c’era la possibilità immediata di comprarne un altro paio.

E dei bombardamenti di febbraio cosa ricorda?

In febbraio, a partire dal 17, vi furono dei bombardamenti che rasero al suolo la città. Mia nonna, che abitava in via Portoscalas, disse a mia madre di trasferirsi in casa sua per evitare che rimanesse da sola a casa con sei bambini ed uno in arrivo. Mio padre si trovava in quei giorni a Teulada dove prestava servizio militare. Cosicché proprio il 28 febbraio mia madre si recò insieme a mia sorellina nella nostra casa a prendere una parte del corredo del nascituro. Si trovava nei pressi di via Siotto Pintor quando iniziò il bombardamento che, diversamente dagli altri, non fu preceduto dall’allarme perché si era rotto. Mia madre entrò nel primo portone aperto che trovò. Ma, purtroppo per lei, proprio la palazzina in cui trovò rifugio venne bombardata. Fu investita dalle macerie. Tutto il suo corpo venne sepolto, rimase fuori solo la testa. Mia sorella si salvò perché fu protetta dalla pancia di mia madre. Il fratellino che doveva nascere rimase miracolosamente incolume. Noi che nel frattempo ci trovavamo a casa di mia nonna eravamo terrorizzati. Ricordo molto bene la sua preoccupazione perché già immaginava mia madre e mia sorella morte sotto il bombardamento. Dopo molte ore, durante le quali vedevamo sfilare davanti al portone di casa i carretti che trasportavano i cadaveri, mia madre bussò alla porta e fui io ad aprire. Quello che vidi mi paralizzò dalla paura: mia madre bianca come un cencio e con i suoi lunghi capelli ritti in testa. Mia nonna si affrettò ad accoglierla e a rincuorarla. Ma temendo che potesse essere successo qualcosa al nascituro, la indusse a recarsi in ospedale per un controllo. Intanto mia nonna fece in modo di procurare un mezzo per andare via dalla città. A notte fonda arrivò mio zio Pippo Ortu con una “topolina” che ci avrebbe portato a Serramanna. Ancora oggi mi chiedo come siano riuscite ad entrare in quella piccola macchina dieci o forse dodici persone. Avevamo così tanta paura che ci assottigliammo per farci stare tutti. Però andavamo via senza poter fare saper a mio padre dove saremo andati.

Cosa ricorda dello sfollamento?

Come ho detto riparammo a Serramanna grazie a mio zio Pippo che da subito si occupò di tutta la mia famiglia e di questo gliene sarò riconoscente finché campo. A Serramanna mio zio trasferì la sua attività di sarto e lavorò per mantenerci tutti. Non ricordo di aver mai patito la fame. Anzi per me bambina lo sfollamento fu quasi una villeggiatura. Ricordo che una signora anziana senza figli mi prese a ben volere. Mi accudì con amore ospitandomi spesso nella sua casa dove mi faceva trovare ogni ben di Dio. La mattina mi preparava la colazione con il latte ed il pane tostato sulla brace del camino. Spesso mi dava il pane per tutta la famiglia. I rapporti con gli abitanti del paese ricordo che furono sempre corretti, però se avevamo bisogno di qualcosa non volevano soldi ma roba. Ricordo molto bene anche il mercato nero, molto fiorente anche a Serramanna oltre che in città. Della casa in cui vivevamo ricordo con un certo disgusto la fossa settica (muntronasciu) che veniva usata come gabinetto. Noi bambine eravamo così piccole che tutte le volte avevamo il terrore di finirci dentro. Così mio zio comprò per ognuno di noi dei vasi per fiori che vennero sigillati ed usati come vasini.

Mi adattai così bene alla vita del paese che partecipai spesso con le mie sorelle più grandi ai lavori stagionali dei contadini che ci portavano volentieri con loro nei campi per la vendemmia o per la spigolatura. Per noi era come giocare. Mia madre invece non la pensava così. Quando tornavamo eravamo così sporche di terra che doveva lavare noi e tutto quello che avevamo indosso, scarpe comprese.

Vostro padre ebbe poi modo di raggiungervi?

Quando mio padre seppe del bombardamento del 28 febbraio si precipitò a Cagliari in bicicletta. Quando arrivò a casa, non trovando nessuno, pensò di andare al rifugio. Casualmente lungo la strada incontrò un conoscente che aveva visto mia madre mentre si recava in ospedale. Da lei seppe che ci saremo trasferiti la sera stessa a Serramanna. Così fu lui a far saper a mio padre dove ci trovavamo. Prese il treno e ci raggiunse. Il suo ritorno fu per noi una festa.

Avete mai incontrato i soldati?

Ricordo che con i soldati italiani avemmo sempre buoni rapporti, mentre dei tedeschi non ci fidavamo. Comunque sapevamo che a Decimo si trovava una base militare. Ricordo molto bene che la base venne bombardata. Noi da Serramanna potemmo osservare, senza correre pericoli, il bombardamento come se fosse un fuoco d’artificio.

Quando tornaste in città?

Dopo circa un anno. Mio padre trovò una casa in affitto. Certo la città era irriconoscibile: macerie ovunque. La vera novità era rappresentata dalla presenza degli americani e, soprattutto, degli americani di colore. Mio padre ci diceva che non dovevamo mai per nessun motivo fermarci con loro per strada, ma noi bambine, nonostante la paura dell’”uomo nero”, così li chiamavamo scherzosamente, spesso accettammo delle tavolette di cioccolata. Piuttosto la città era disseminata di schegge inesplose, così la prima raccomandazione che tutti gli adulti facevano a noi bambini era di non raccogliere nulla da terra. Comunque la vita gradualmente tornò alla normalità. Mia madre che sapeva cucire mi invogliò a frequentare un corso per imparare a fare i pantaloni. Divenni una esperta pantalonaia e trovai facilmente lavoro.

Fonte | Liceo Michelangelo


Il mestiere di pastore come traino del Made in Italy in tutto il mondo

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Il mestiere di pastore è antico, complesso e dipende da tanti fattori: la stagione,  il luogo, il numero di animali, condizioni meteo e tante altre cose.

Molti sostengono che gli animali possano anche mangiare da soli. Questo è vero, infatti nessuno porta al pascolo mufloni, cervi, camosci o simili. Però vanno anche difesi e organizzati, soprattutto quando si parla di pecore con agnelli al seguito: il pastore è sempre lì a chiamare, spostare il gregge, mandare il cane e scacciare i pericoli.

I pastori sono i primi a dire che le pecore erano più belle una volta, quando le si lasciava libere di pascolare e non si dovevano chiudere la sera nel recinto. Però è sempre il pastore che decide di spostare il gregge quando l’erba scarseggia.

Se dovessero scegliere da sole, abbandonate a se stesse, finirebbero per radunarsi in un unico punto dove non sempre c’è molto da mangiare. Invece lui decide dove si va al pascolo, giornata dopo giornata, cercando di evitare le zone più pericolose o carenti di materia, evitando di sprecare erba o di rovinare il terreno.

La maggior abilità sta anche nello scegliere dove portare gli animali affinché si sfamino, saper scegliere il percorso migliore e valutare adeguamente il foraggio, perché basta poco che gli animali si gonfino a causa della troppa erba di cui hanno fatto indigestione. Questo per rendere anche belle le pecore, quelle dove puoi affondare la mano nella schiena, tra la lana, non tra le ossa.

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Non bisogna danneggiare niente e nessuno: a volte è anche necessario fare centinaia di metri in più per non rovinare un campo di grano. Serve pazienza per concedere agli animali il tempo si pascolare, ruminare ed esser tranquilli, attendere nonostante il vento, il freddo o il caldo. Questo in base alle necessità degli animali, non dell’uomo.

Un buon pastore deve capire le esigenze dei propri animali, conoscerli per capire quando stanno male o hanno sete. Come tutti i mestieri bisogna saperlo fare e se lo si fa bene si vedranno i risultati: animali sani e robusti, di bell’aspetto. Che poi questo venga riconosciuto è un altro discorso…

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In un periodo di crisi, dove il lavoro scarseggia, sono parecchi i giovani che riscoprono il mestiere del pastore. Secondo la Coldiretti “si stima che siano circa tremila i giovani che per battere la disoccupazione hanno scelto di mettersi alla guida di un gregge”.

Si tratta in gran parte di giovani che intendono dare continuità all’attività dei genitori ma ci sono anche ingressi ex novo spinti dalla voglia di trovare una occupazione alternativa a contatto con gli animali e la natura.

Il Pecorino come eccellenza del Made in Italy

Altra valutazione degna di nota è che il Pecorino sta superando il Parmigiano nelle esportazioni del Made in Italy.

Le esportazioni di Pecorino e Fiore Sardo sono aumentate in valore del 20 per cento nel 2014 facendo registrare la migliore performance all’estero tra tutti i prodotti alimentari Made in Italy, con un effetto traino sul prezzo che ha sorpassato per la prima volta quello del Parmigiano Reggiano, il più apprezzato e imitato formaggio di latte vaccino del mondo.

Sempre secondo Coldiretti, il Pecorino “sta avendo riflessi sul prezzo del latte di pecora che potrebbe avvicinarsi a breve ad un euro al litro. Ciò significherebbe “riuscire almeno a coprire i costi di produzione in continuo aumento”.

E’ cambiamento significativo per l’Italia dove – sottolinea la Coldiretti – ci sono 6,2 milioni di pecore allevati e circa 700mila capre, che pascolano soprattutto in Sardegna dove si allevano 3,2 milioni di pecore, in Sicilia (770mila), nel Lazio (630.000) e Toscana (420.000) anche se allevamenti sono presenti lungo tutta la penisola.

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Ecco ora alcune immagini di un pascolo a Serramanna:

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Antonio Ledda: da Serramanna a Majdanek via Dachau, viaggio di sola andata

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Il 27 gennaio si commemora la Giornata della Memoria, ricorrenza internazionale per ricordare tutte le vittime del Nazi-fascismo, dell’Olocausto e in onore di tutti coloro che, in ragione di ideali di giustizia e pace, hanno sacrificato la propria vita per proteggere i perseguitati. È stata scelta questa data perché il 27 gennaio 1945 furono abbattuti i cancelli di Auschwitz in Polonia e fu dato inizio alla liberazione di tutti i prigionieri.

Dachau, fu il primo campo ad essere istituito; venne allestito nel marzo 1933 sul terreno di una ex fabbrica di munizioni, da Himmler, allora capo della polizia di Monaco, dopo la vittoria elettorale di Hitler e l’incendio del Reichstag. Doveva essere il prototipo dei lager, quello a cui dovevano ispirarsi le costruzioni di tutti gli altri campi.

Un ufficiale americano del 7° Reggimento nel suo rapporto sulla liberazione del lager, il 30 aprile 1945 scrisse: “Nella lingua inglese mancano le parole con le quali possa essere descritto anche solo approssimativamente il campo di concentramento di Dachau”.

A Dachau, a partire dal 22 marzo 1933, vennero condotti i primi prigionieri.

Si trattava principalmente di comunisti, sindacalisti, oppositori del partito; successivamente si aggiunsero: omosessuali, zingari, persone ritenute asociali e tutti coloro che, nell’ottica di Hitler, costituivano una minaccia per lo stato nazista. A partire dal 1937, le SS sfruttarono i prigionieri per la demolizione della vecchia fabbrica e la costruzione del vero campo di concentramento.

Largo 300 metri e lungo 600, al campo si accedeva tramite il Jourhaus, l’edificio di guardia del comando il cui cancello porta la scritta Arbeit Macht Frei (“il lavoro rende liberi”).

Il nucleo centrale del campo era costituito da 32 baracche nelle quali venivano divisi i prigionieri.

Oggi è possibile visitare la ricostruzione di una sola baracca perché le altre sono state distrutte al termine della guerra. Nel campo di Dachau, a partire dal 1940 furono costruiti due forni crematori e si stima che in 5 anni siano stati bruciati i corpi di oltre 3.500 persone.

Il campo fu liberato il 27 aprile 1945 dagli americani. Al momento della liberazione nel campo c’erano ancora 32.355 prigionieri, di cui 3.388 italiani.

Dei 22.826 italiani rinchiusi nei Konzentrationslager (KL), 11.432 furono designati come Schutzhäftling (deportati per motivi di sicurezza), 3.723 come Politisch (in parte già presenti nel Casellario politico centrale dell’Italia fascista), 801 come asociali, 779 come prigionieri di guerra, 198 come ‘criminali abituali’ (detenuti in carceri italiane e consegnati da Salò ai tedeschi), 170 come lavoratori civili rimasti intrappolati in Germania, 7 come religiosi e 15 come ebrei-politici.

Fu chiara per tutti i deportati, man mano che la Germania aveva bisogno di forza produttiva, la natura della deportazione: il lavoro schiavo.

Le morti furono, sul totale, 10.129, una percentuale vicina al 50%, che arrivò al 55% nel lager di Mauthausen. Fu tuttavia Dachau, con 9.311 persone, il luogo con il maggior numero di deportati italiani.

Non se ne parla tanto ma vi era un altro campo, anche più grande e crudele sia di Dachau che di Auschwitz, era il campo costruito nei pressi della città polacca di Lublino, il campo di Majdanek.

Il campo di Majdanek, costruito nell’agosto-settembre 1941, era un luogo di concentramento e sterminio.

Per ordine di Heinrich Himmler, il campo venne costruito dal Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei sotto il comando di Odilo Globocnik, Comandante delle SS e della Polizia del distretto di Lublino, nel Governatorato Generale (il nome assunto dalla Polonia tra il 1939 e il 1945).

All’inizio un campo di concentramento doveva essere costruito vicino il cimitero di via Lipowa.

Nell’estate del 1941 prigionieri di guerra ebrei del campo di Lipowa iniziarono a preparare il terreno a sud-ovest del cimitero, ma poiché l’amministrazione civile tedesca si opponeva a questi progetti, Globocnik decise di costruire il campo di concentramento fuori Lublino, sui campi di Dziesiata. Quando i lavori erano già avviati, il nome venne cambiato nel più conosciuto “Majdanek” (dal nome del sobborgo di Majdan Tatarski). L’amministrazione del campo fu collocata in Gartenstraße 12.

Fino all’aprile 1943 il luogo fu chiamato “Campo delle Waffen-SS di Lublino per prigionieri di guerra” ma già a novembre/dicembre 1941 vi furono inviati i primi gruppi di prigionieri (non solo i prigionieri di guerra sovietici), tra i quali un gruppo di 200 ebrei del ghetto di Lublino, gruppi di ebrei provenienti dalle piccole città attorno Lublino e contadini polacchi del distretto di Lublino.

Il campo si trovava solamente 3 km a sud del centro di Lublino, mentre oggi la zona è parte della città, lungo la strada per Zamosc.

Con una superficie di 2,7 km2, era persino più vasto di Auschwitz-Birkenau.

Majdanek doveva diventare il più grande campo di concentramento fuori dal Reich Tedesco.

Nel centro del campo vennero progettate dieci sezioni, circondate da filo spinato elettrificato e torri d’osservazione. Ogni sezione doveva contenere 20 baracche per prigionieri e due baracche per le necessarie attrezzature.

I prigionieri furono gassati in tre camere a gas, principalmente utilizzando monossido di carbonio (questa informazione proviene da rapporti del movimento clandestino che sono custoditi nell’archivio del museo).

Gli effetti personali delle vittime venivano venduti, anche i loro capelli. L’amministrazione del campo di Majdanek in totale ne spedì 730 kg!

I corpi erano bruciati in un crematorio. I prigionieri lavoravano in circa 20 baracche (officine e magazzini) e all’esterno del campo.

Nel Luglio 1944, il campo fu evacuato a causa dell’avanzata dell’Armata Rossa. Inizialmente venne stimato che durante l’esistenza del campo vi passarono circa 300.000 prigionieri (di cui più del 50% Ebrei), e che di questi 78.000 morirono. Una ricerca più recente indica che il numero totale reale dei deportati nel campo fu di circa 100.000 – 120.000, sebbene una cifra definitiva è ancora da stabilire.
Organizzazioni di resistenza furono attive durante l’esistenza del campo. Alcuni prigionieri poterono scappare e informare le persone riguardo le strutture e le condizioni all’interno del luogo. Il rapporto di un ebreo slovacco è custodito nell’archivio di Majdanek.

Dal 1944 il sito del campo è diventato un memoriale. Oggi il visitatore può ancora vedere le baracche delle officine, due edifici delle camere a gas, il crematorio, alcune baracche per prigionieri e alcuni resti di edifici delle SS.

L’unico serramannese finito in un campo di concentramento, fu ANTONIO LEDDA, nato a Serramanna il 16 marzo 1874, figlio di Antonio e Doloretta Cireddu, viveva a Serramanna con la moglie Felicita Lichino che aveva sposato il 9 novembre del 1901, ed era un possidente terriero, molto conosciuto in paese col nomignolo di “Antoniccu”.

atto_nascita

Atto di nascita e matrimonio di Antonio Ledda

Fu anche presente in qualità di testimone, assieme ad un altro possidente Murgia Fiorenzo, alla costituzione della “Mutua assistenza fra gli Operai ed Artigiani di Serramanna“, costituita con atto pubblico il 4 aprile 1908 rogato dal notaio Efisio Serra, assieme ai 37 soci fondatori.

ANTONICCU LEDDA

Antonio “Antoniccu” Ledda

Ebbero sei figli, quattro maschi e tre femmine, una delle quali, Natalina, entrò in convento a Cagliari col nome di Suor Maria Teresa.

Natalina Ledda

Natalina Ledda / Suor Maria Teresa

Per motivi che non starò qui a descrivere, anche per non urtare la sensibilità di discendenti tutt’ora in vita degli incresciosi fatti verificatisi in un arco di tempo compreso tra gli anni 20 e 30 del secolo scorso, diciamo che il Ledda finì nei guai con la giustizia per un atto sconsiderato e conseguentemente fu arrestato e condannato.

Negli anni ’40 venne trasferito nel Carcere Giudiziario di Badia di Sulmona, in provincia de L’Aquila.

Il carcere di Badia di Sulmona, oltre ad essere un luogo di reclusione per antifascisti jugoslavi, lo era anche per gli italiani condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e da carcerati comuni. Il direttore delle carceri era un certo Corrado De Jean.

CARCERE DI SULMONA

Carcere di Badia di Sulmona

Il Ledda, pur non trovandosi nella condizione di detenuto politico ebbe la “sfortuna” di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, giacché il Penitenziario di Sulmona era un cosiddetto carcere di smistamento e successivamente all’armistizio man mano che i tedeschi ripiegavano verso il nord Italia, le carceri venivano svuotate.

Nel periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 partirono dall’Italia, o da territori all’epoca facenti parte del territorio del Regno, 123 trasporti diretti verso la rete concentrazionaria nazista.

Il primo partì da Verona con destinazione Dachau e Mauthausen il 20 settembre 1943 e l’ultimo da Bolzano, sempre per Dachau il 22 marzo 1945, a un mese dalla liberazione dell’Italia.

La mappa delle carceri e dei campi di raccolta da cui partirono i convogli disegna a grandissime linee la geografia della RSI (Repubblica Sociale Italiana: governo collaborazionista fondato dopo l’Armistizio di Cassibile, durante la seconda guerra mondiale, per volontà di Adolf Hitler, con a capo Benito Mussolini) che occupava sei regioni al Nord (Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Trentino e Venezia Giulia) e tre del centro (Lazio, Toscana e Umbria).

Piccolo appunto.

L’armistizio di Cassibile (detto anche armistizio corto), fu un armistizio siglato segretamente, nella cittadina di Cassibile, il 3 settembre del 1943, e l’atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze Anglo-Americane Alleate, nell’ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio, ma di una vera e propria resa senza condizioni.

Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente citato come “8 settembre”, data in cui, alle 18:30, fu reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight Eisenhower e, poco più di un’ora dopo, alle 19:42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell’EIAR.

Antonio Ledda, partì dalla stazione ferroviaria di Sulmona, cittadina pesantemente bombardata il 27 agosto 1943 dall’aviazione alleata, l’8 ottobre 1943.

Descrive così gli avvenimenti, Giovanni Melodia, anche lui detenuto nel carcere di Sulmona per motivi politici (autore del libro di memorie “Non dimenticare Dachau” Mursia Editore – 1993 e di “La quarantena: Gli italiani nel Lager di Dachau” Editore Mursia – 1971):

Alle 7,30 del mattino dell’8 ottobre, i soldati della Wehrmacht entrarono nel carcere e, nel giro di 20 minuti, tutti i detenuti, politici e comuni, sorvegliati a distanza da mitragliatrici “italiane”, vennero caricati su carri merci chiusi e fatti partire per la Germania. Un trasporto di 391 persone, di cui solo 9 gli italiani antifascisti. Gli altri italiani erano 151 detenuti comuni e ergastolani. Destinazione il Konzentrationslager Dachau”.

Arrivarono a Dachau dopo 6 giorni e 5 notti di viaggio, senza acqua e senza viveri, il 13 ottobre 1943.

Con Ledda e Melodia, ci sono anche 39 antifascisti greci che verranno immatricolati come italiani.

Stazione Ferroviaria di Sulmona

Stazione Ferroviaria di Sulmona

Al convoglio costituito da vagoni merci del “Tipo F 1925” delle Ferrovie dello Stato italiane, piombati e col filo spinato in ogni apertura furono aggiunti durante il viaggio altri deportati durante le soste a Roma, Firenze e Verona; in base alla sequenza dei numeri di matricola attribuiti alla data di arrivo del convoglio (compresi tra il 56389 e il 56781), il totale dei deportati può essere valutato in 391 di cui 166 italiani, oltre a partigiani slavi e albanesi e dopo Roma, vennero aggregati un centinaio di prigionieri britannici. Vi erano anche una ventina di studenti greci di un liceo e Salvatore Doria, foggiano, testimone di Geova, condannato a undici anni per offese al re, a Mussolini e al Papa.

Carro merci tipo F, a doghe in legno delle Ferrovie dello Stato, del tipo utilizzato per la deportazione

Carro merci tipo F, a doghe in legno delle Ferrovie dello Stato, del tipo utilizzato per la deportazione

Disegno tecnico del Carro Merci

Disegno tecnico del Carro Merci

Il tremendo viaggio è molto ben descritto dal Melodia, che racconta che per ben due giorni non vennero mai aperti i portelloni;

Nessuno ci portò acqua o viveri. Se solo una mano si sporgeva dagli sfiatatoi che erano stato chiusi col filo spinato, i militari sparavano”.

Il convoglio arrivò a Dachau, ed è sempre il Melodia a fornirci un accurata descrizione dei fatti:

 “Scaraventati giù dai vagoni ci incamminammo in fila scortati dai soldati della Wehrmacht, arranchiamo, affannati e ogni tanto qualcuno cade… le file si scompaginano, i soldati penetrano in mezzo alla colonna. Noi approfittiamo  dell’improvviso disordine per riposare un attimo, avvicinarci ad un amico e far passare nelle file interne i vecchi, gli invalidi che così potranno sostenersi nella marcia aggrappati ai compagni”.

E poi l’arrivo al campo, sempre scortati dalla Wehrmacht che li mette sotto la custodia delle SS.

Sempre il Melodia racconta

Dopo il cancello con la scritta Arbeit Macht Frei (il lavoro rende liberi) passiamo sotto il controllo delle SS, con i teschi e le tibie sulla divisa nera. L’impatto fu terribile: gli altri prigionieri, saputo che eravamo italiani, scaricarono su di noi violenze e odio apostrofandoci con “banditen”, “faschisten”, “Badoglio!”.

Stazione ferroviaria di Dachau e un treno per il trasporto dei deportati

Stazione ferroviaria di Dachau e un treno per il trasporto dei deportati

A Dachau, il Ledda, come tutti gli altri deportati, oltre al nome perse anche la sua dignità e divenne un numero… il 56628 e gli fu assegnata la categoria di “Schutzhäftlinge” (cioè deportato per motivi di sicurezza).

NOME LEDDA

Particolare del libro matricola originale di Dachau KL(gentilmente inviatami da Roberto Zamboni)

Melodia scrive:

“Dopo ore di attesa si avvicinò a noi un altro gruppo, stavolta erano italiani”.

Si trattava dei 1.790 soldati che erano imprigionati nelle carceri militari e che, per essersi rifiutati di entrare nelle formazioni naziste e fasciste, erano stati inviati a Dachau da Peschiera del Garda, con un trasporto giunto nel lager il 22 settembre 1943.

Erano a Dachau da sole tre settimane e il loro aspetto non aveva più nulla di umano, ridotti ormai a povere vite, magri, ingobbiti dalle botte, sporchi e vestiti di stracci”.

L’entrata principale di Dachau KL e particolare del cancello con la scritta Arbeit Macht Frei

L’entrata principale di Dachau KL e particolare del cancello con la scritta Arbeit Macht Frei

Un doveroso accenno sul clima di Dachau:

A ottobre e novembre nevica abbastanza di rado, per lo più si tratta di neve debole. Il cielo è quasi sempre coperto; di giorno è abbastanza freddo e le notti sono rigide, le temperature si aggirano sui -6°.

A dicembre la temperatura cala moltissimo, specialmente quella diurna ed il suolo ghiaccia abbastanza frequentemente. È praticamente sempre ventilato, in genere c’è brezza che talvolta arriva a 28-29 Km/h.

Sempre il Melodia racconta:

L’inverno che si presentava assai rigido, fu per noi drammatico. Tenuti, per l’intera, eterna, giornata, all’aperto nella strada tra baracca e baracca, nel vento, nel gelo e nell’incessante nevischio, i crani rasati, mal coperti di luridissimi stracci, pochissimo alimentati, bastonati e insultati, non eravamo più uomini ma Stücke, “pezzi”, senza più neanche il nostro nome, e ci sentivamo impazzire”.

Gli internati nei campi di concentramento avevano generalmente una divisa a strisce su cui veniva cucito un numero, mentre ad Auschwitz veniva tatuato sul braccio, ed un triangolo colorato che ne distingueva la categoria: Rosso per i politici, Rosa per gli omosessuali, Verde per i criminali comuni, Nero per gli asociali, Violetto per gli obbiettori di coscienza, Marrone per gli zingari, gli ebrei avevano sotto il primo triangolo un secondo di colore Giallo che formava la stella di David; le persone poco intelligenti avevano un bracciale con la scritta “idiota”, l’intolleranza razzista si esercitò anche verso i deboli: i malati di mente, gli incurabili, i disabili.

Per queste persone venne varato il “Progetto T4″, meglio noto come “Progetto Eutanasia”, sostenuto dalla insostenibilità economica di tali vite “non più degne di essere vissute” che condusse alla morte circa 70.000 cittadini tedeschi definiti “inguaribili”.

In base alla classificazione visiva adottata a Dachau si può supporre che avesse appuntata sulla divisa a righe questa “mostrina”:

Foto Divisa e Ricostruzione divisa del Ledda

Foto Divisa e Ricostruzione divisa del Ledda

Grazie alle mie personali ricerche, supportate poi da Roberto Zamboni (curatore del sito http://dimenticatidistato.altervista.org), in possesso di archivio informatico curatissimo e incrociati con quelli presenti nella banca dati dell’Associazione Nazionale ex Deportati e riportati anche nel libro della Mursia “Il Libro dei Deportati”; fonti tratte da documentazione originale proveniente dagli stessi campo di concentramento nonché grazie al prezioso contributo della Professoressa Antonella Filippi, coautrice del libro “Deportati italiani nel lager di Majdanek” editore Zamorani, basate su documenti originali, quali il “Totenbuch – Libro dei morti” di Majdanek, il 3 gennaio 1944, viene trasferito nel campo di concentramento di Majdanek a Lublino in Polonia, dove arriva il 6 gennaio 1944, dunque dopo 3 giorni di viaggio (Dachau, dista da Lublino ben 1.173,8 Km), dove viene schedato “Sipo e SD Trieste Sch., Italien. Sch. H” (Schutzhäftlinge Italien Häftling – prigioniero italiano detenuto per motivi di sicurezza).

Racconta il Melodia del viaggio del 3 gennaio, da Dachau a Majdanek; un trasporto di malati e invalidi, composto di 1.000 prigionieri, tra cui 102 italiani:

Sono giorni e giorni che, anche da posti lontanissimi, arrivano gruppi di prigionieri: e sono zoppi, vecchi, ciechi e mutilati. Per accoglierli e tenerli insieme in attesa della partenza è stata sgomberata un’intera baracca: la 22 dall’altra parte della Lagerstrasse. Domenica 2 gennaio si formarono le file, i prigionieri furono chiamati col loro numero e il plotone fu pronto per la partenza.

Nella prima fila un uomo curvo, sfatto, il cui bassoventre è deformato da un’ernia enorme… e accanto un deportato alto, ossuto … che il posto l’ha raggiunto con una gamba sola saltellando. Nella fila seguente un prigioniero che ha un braccio inerte, tutto rattrappito su un fianco, vicino ad uno che ha la testa quasi interamente fasciata”.

Del convoglio che arrivò il 6 gennaio a Lublino, 29 erano morti durante il percorso – riporta il libro “Deportati italiani nel Lager di Majdanek” a pag. 172 – e i sopravvissuti passarono la notte ammassati nella sala docce, dormirono per terra sul pavimento di cemento, nel gelo. Il 7 gennaio furono immatricolati e in quella data altri 27 erano morti. Il 13 si contavano 127 morti e l’8 aprile il bilancio dei morti di quel trasporto salì a 285. Di questo trasporto, solo 9 italiani tornarono a casa.

Come riportato nel libro “Deportati italiani nel lager di Majdanek” della Filippi e di Lino Ferracin, viene specificato che tutte queste notizie son tratte dal “Totenbuch” (il libro dei morti) di Majdanek, dove per ogni prigioniero deceduto nell’ultima colonna, alla voce “Einweis Dienststelle” ovvero “Avviato dal reparto”, era indicata la sezione del RSHA (Reichssicherheitshauptant – Ufficio centrale per la sicurezza del Reich) da cui il detenuto era stato assegnato al lager al momento della deportazione. “Sipo e SD Trieste” era l’indicazione per i deportati partiti da Sulmona(e in seguito da Trieste e Pola) per Dachau.

MAPPA CAMPI DI CONCENTRAMENTO

Ricordiamo che Dachau sorgeva su un area paludosa, con un clima umido, nebbioso e desolato, non certo adatto alla salute dei prigionieri, figuriamoci ad un uomo alla soglia dei settant’anni; credo sia dunque ammirevole il fatto che riuscì a restare vivo per 3 mesi in quel campo e in quelle condizioni.

Dachau servì da modello a tutti i lager nazisti eretti successivamente; fu la scuola dell’omicidio; le SS imparavano “Lo spirito di Dachau” ovvero il “terrore senza pietà” per esportarlo negli altri campi di concentramento. Furono sperimentate e messe a punto le più raffinate tecniche di annientamento fisico e psichico degli avversari politici, ai quali in un primo tempo quel Lager era dedicato come luogo di «rieducazione». Alcuni dei prigionieri venivano stroncati dalla fatica del lavoro, altri subivano l’inumana pena del bunker, dove molti deperirono per mesi (se non soccombevano prima) incatenati, alimentati con pane ed acqua o costretti a stare in piedi, dentro stanze, se le si può definire in questo modo, di 60 cm x 60 cm, senza luce, senza aria.

Ingresso a Majdanek KL (Lublino)

Ingresso a Majdanek KL (Lublino)

A partire dalla fine del 1943, iniziarono ad arrivare a KL Lublin trasporti con prigionieri malati provenienti da molteplici campi del Reich, Auschwitz, Buchenwald, Dachau, Sachsenhausen e Neuengamme.

La maggior parte dei detenuti moriva già durante il viaggio o appena dopo il loro arrivo a Majdanek. I convogli dei malati o “Trasporti di sangue” non erano destinati alle camere a gas, li si lasciava semplicemente morire. Majdanek, in sostanza, fungeva prevalentemente da campo di eliminazione.

Pensiamo anche al clima, ben più rigido rispetto a Dachau.

A Lublino a gennaio fa molto freddo in particolare la media notturna che varia da 1° a -7° nell’ultima parte del mese ed il suolo ghiaccia molto frequentemente.  Durante il giorno la colonnina di mercurio passa dai 6-7° di inizio mese ai 0° di fine mese. Nevica abbastanza di rado, solo in casi sporadici si trovano giornate con nebbia ed è sempre ventilato, in genere c’è brezza leggera che talvolta arriva anche a 32-33 Km/h.

Ad inizio febbraio fa tremendamente freddo, la massima diurna è generalmente sui -10° e ai attesta sui 5° a fine mese mentre le notti vanno dai -18° dell’inizio ai -3 della fine del mese. Il suolo ghiaccia frequentemente e si registrano deboli nevicate.

Marzo è un periodo abbastanza rigido, ma durante il mese le temperature salgono moltissimo, specie le massime diurne che passano da 6-7° di inizio mese a 13-14° nell’ultima parte del mese. Durante la notte la colonnina di mercurio passa dai -5/-6° di inizio a circa zero gradi di fine mese.

Tra il dicembre 1943 e il marzo 1944, arrivarono a Majdanek circa 18.000 cosiddetti “malati”, molti dei quali furono gassati col “Zyklon B”.

Majdanek Costruzione N. 41 – camera a gas in cui veniva impiegato il Zyklon B (nome commerciale di un agente fumigante a base di acido cianidrico)

Majdanek Costruzione N. 41 – camera a gas in cui veniva impiegato il Zyklon B (nome commerciale di un agente fumigante a base di acido cianidrico)

Il nostro compaesano, è appurato che non morì né a Dachau, né durante il viaggio verso Majdanek, poiché vi è tracciato il suo arrivo al campo e nemmeno fu “gassato” come potrebbe pensarsi.

È sempre grazie al libro “Deportati italiani nel lager di Majdanek” della Filippi, che è stato possibile risalire sia alla data, che alle cause del decesso del Ledda, infatti è accertato che morì il 22 marzo 1944, a 70 anni appena compiuti a causa di “turbe circolatorie secondarie a sclerosi vascolare”.

Ovviamente le cause di morte, indicate nel “Libro dei morti di Majdanek”, sono quasi sempre una ripetizione meccanica di poche patologie; le più comuni utilizzate sono la polmonite e la tubercolosi polmonare o più genericamente le cause di morte vengono attribuite genericamente conseguenti a disturbi circolatori.

Il campo di Majdanek offre molte più drammatiche testimonianze rispetto agli altri campi, forse anche grazie al fatto che già nel 1944 il Museo Statale di Majdanek ha iniziato la sua funzione di primo “luogo della memoria” del mondo.

Quando si accede al campo e si oltrepassa l’ingresso, ci si imbatte subito nel fatidico “Blocco 41”, un caseggiato adibito all’immatricolazione, alla selezione (docce, sale di disinfestazione), allo sterminio (camere a gas).

I prigionieri selezionati per essere uccisi, venivano fatti entrare nel blocco 41, passato  l’ingresso, in una prima stanza gli rasavano i capelli che venivano poi venduti alla ditta tedesca “Paul Reimann” in Friedland (attuale Mieroszów comune polacco del distretto di Wałbrzych, nel voivodato della Bassa Slesia) per 50 pfennigs al Kg..

Come ricordano in alcuni scritti i detenuti “Ogni giornata iniziava con l’appello che poteva durare ore, durante il quale molti venivano picchiati fino a restare mezzi morti.

Se durante la giornata di lavoro riuscivano a sopravvivere, li attendeva il brutale appello della sera. Anch’esso poteva durare ore.

Inizialmente nel crematorio funzionavano due forni mobili alimentati a nafta. Successivamente, dall’autunno del 1943 iniziarono a funzionare 5 forni fissi alimentati con “coke” che nell’arco di 24 ore riuscivano a bruciare fino a 1000 corpi. Prima di abbandonare il campo, i Nazisti nel tentativo di nascondere le prove delle atrocità commesse, bruciarono il crematorio. Solo una parte di esso andò distrutto ma venne ricostruito in pochi mesi.

I corpi, prima di essere bruciati, venivano adagiati sul tavolo di dissezione, qui si prelevano gli oggetti di valore e si estraevano i denti di oro e di argento dei detenuti uccisi.

La Professoressa Antonella Filippi si è inoltre prodigata per indirizzare i discendenti di Antonio Ledda affinché possano entrare in possesso dell’atto di morte del congiunto attraverso l’International Tracing Service (ITS) (iscritto dall’UNESCO al Memory of the World Register), con sede nella città tedesca di Bad Arolsen, in cui grazie alla Croce Rossa internazionale è possibile ottenere certificazioni ufficiali riconducibili ai deportati nei campi di sterminio.

L’ITS di Bad Arolsen è appunto un’istituzione della Croce Rossa internazionale e dal 1955 è gestito da una Commissione internazionale formata da 11 Stati, che nacque pochi mesi dopo la fine della guerra per cercare di ricostruire la sorte dei milioni di persone deportate nei campi di concentramento o costrette a emigrare dai loro luoghi di origine dall’esercito e dall’amministrazione nazista.

Gli archivi contengono più di 50 milioni di schede informative su più di 17 milioni di vittime civili della persecuzione, sfruttamento e sterminio nazista e sono organizzati in 5 grandi sezioni:

  • Central Name Index
  • Prisoners (Prigionieri)
  • Forced Labourers (Lavoratori forzati)
  • Displaced Persons (Dispersi)
  • Children (Bambini)

Nelle stanze dell’ex caserma delle SS di Bad Arolsen è custodito quello che qualcuno ha definito l’archivio della Shoah, il “registro” più completo dell’ossessione nazista di documentare e catalogare ogni singolo aspetto dello sterminio.

Gli aguzzini annotavano, in bella calligrafia e su appositi moduli personali, tutto ciò che riguardava le loro vittime, anche informazioni apparentemente irrilevanti: non solo dati anagrafici o i rapporti della cattura e dei trasferimenti, lo stato di salute, ma anche le inclinazioni sessuali, i comportamenti durante gli interrogatori e le torture, i particolari agghiaccianti delle loro reazioni ai brutali esperimenti pseudoscientifici e alle violente ispezioni, come pure il bagaglio d’arrivo, la composizione del rancio, le ferite riportate, persino i pidocchi trovati durante un’ispezione. Fino all’ultimo dato: il giorno e l’orario del decesso.

Negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, attraverso il recupero di diverse fonti documentarie (archivi nazisti, elenchi di deportati redatti dalle comunità locali, dalle amministrazioni civili o dalle autorità militari dei paesi coinvolti nel conflitto) l’International Tracing Service divenne quindi il nodo nevralgico della raccolta delle informazioni sul destino di oltre quindici milioni di persone.

In conclusione di questa ricostruzione vorrei solo dire che spero di non aver riaperto vecchie ferite o dissapori, anche perché come è facilmente riscontrabile Antonio Ledda ha pagato, credo anche a caro prezzo per una serie di circostanze a lui sfavorevoli, le colpe di cui si era macchiato.

FONTI:

La fonte principali da cui son tratti i dati riguardanti il Ledda sono tratte da

  • Deportati italiani nel lager di Majdanek”, di Filippi Antonella e Ferracin Lino, Ed. Zamorani, a loro volta tratti da:
    • Archivio del Museo di Stato di Majdanek
      • Totenbuch (Libro dei morti) Foglio n. 45 Posizione n. 2184
    • Documento di trasporto da Dachau a Majdanek del 03.01.1944
      • Foglio n. 15 Posizione n. 654
    • Archivio del Museo di Dachau / Registro arrivi al campo
      • N. 114/056567
  • “Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945”, di Italo Tibaldi, edito da Angeli, Milano, 1994
  • “Deportati italiani nel lager di Majdanek”, di Filippi Antonella e Ferracin Lino, Ed. Zamorani
  • “La quarantena: Gli italiani nel Lager di Dachau” di Giovanni Melodia, Editore Mursia – 1971
  • “Non dimenticare Dachau” di Giovanni Melodia, Mursia Editore – 1993
  • http://dimenticatidistato.altervista.org
  • http://stevemorse.org/dachau/dachau.php?=&offset=125805
  • http://ulisse-compagnidistrada.blogspot.it/2014/01/latroce-spirito-di-dachau-che-non.html
  • http://www.ancestry.it/
  • http://www.climanelmondo.com/europa
  • http://www.deportati.it/lager/dachau/dachau.html
  • http://www.duegieditrice.it/2012/02/%E2%80%9Ccarri-della-memoria%E2%80%9D-a-napoli-e-suzzara/
  • http://www.findagrave.com/cgi-bin/fg.cgi?page=gr&GRid=109250259
  • http://www.istitutomontessori.it/cultura/Itinerari/pdf/10_ropa.pdf
  • http://www.istitutoresistenzacuneo.it/archivio
  • http://www.kz-gedenkstaette-dachau.de/
  • http://www.majdanek.eu/articles.php?aid=491&acid=221
  • http://www.tramtreniealtro.com
  • http://www.ushmm.org
  • https://secure.ushmm.org/individual-research/Glossary.pdf
  • http://it.wikipedia.org/wiki/Armistizio_di_Cassibile
  • Testimonianza della Professoressa Filippi Antonella dell’istituto Tecnico Statale per Geometri “Guarino Guarini” di Torino e responsabile del “Progetto Majdanek” in collaborazione col Museo del campo di concentramento di Majdanek
  • Testimonianze dei discendenti della famiglia Ledda
  • Testimonianze orali degli anziani di Serramanna

Paolo Casti

Inveritas Project: Online il secondo documentario sulle realtà imprenditoriali serramannesi

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Frongia12

Il Progetto Inveritas è stato presentato nell’ultima edizione de Sa Passillada (clicca qui per l’articolo) lo scorso 21 Settembre. A distanza di qualche mese è stato quindi rilasciato ufficialmente (vedi articolo dedicato) il primo documentario delle sei realtà aziendali serramannesi (fondatrici inoltre del progetto parallelo www.serramannaimpresa.it in fase di realizzazione) che hanno abbracciato in toto il progetto realizzato e concepito da Marcello Carlotti (qui la sua intervista) e Fabrizio Palazzari.

Di seguito pubblichiamo quindi il secondo video dedicato stavolta alla Frongia Legnami patrocinante del documentario sulla cultura del legno in Sardegna, dal 1965 ad oggi. Buona Visione

Inveritas è lieta di annunciare che è online il secondo documentario antropologico della serie inveritas business. Il progetto inveritas è nato dalla coraggiosa sinergia di antropologia e management per creare valore attraverso i valori e scoprire nuove forme per raccontarsi, organizzarsi e comunicare in termini di verità. L’esplorazione antropologica della struttura organizzativa e dei valori culturali profondi, tramite un documentario, frutto di una coproduzione di lucmaria mc communications ed inveritas.it, con il fondamentale contributo di Studio-A Automazione, Frongia legnami, ARPOS, Sardex, Lasio ricambi e macchine agricole e MULSE, genera i dati utili allo storytelling aziendalee a ridisegnare la comunicazione lungo le direttrici interno-esterno. Verso l’esterno in termini di social marketing e tribal networking. Verso l’interno accordandosi al Values Based Budget e alla Values Lead Organization, tramite cui i valori intrinseci progressivamente scoperti implementeranno la consapevolezza e la funzionalità organizzativa del modello manageriale. E’ dalla costante ricerca di Fabrizio Palazzari, co-founder Inveritas, che nasce la sintesi, tra elaborazione teorica e declinazione pratica, raggiunta dal modello consulenziale Inveritas: creare costantemente nuova conoscenza manageriale mentre, al contempo, si implementano le soluzioni alle criticità emerse con la ricerca antropologica. Per Inveritas, infatti, il management non è solo una scienza che procede per astrazioni, ma è anche una pratica che sperimenta soluzioni a problemi concreti, per trasformare la complessità in semplicità e per progettare il futuro. E’ questa la sfida che le prime sei imprese serramannesi hanno saputo cogliere, facendo proprio il principio che solo con la passione, l’entusiasmo, la fiducia e la consapevolezza è possibile generare reale crescita. Con il determinante contributo dei Champions è così nato il brand territoriale serramannaimpresa.it. Se le storie devono creare un mondo in cui l’ascoltatore (cliente) vorrà tornare, lo storytelling non può essere un’azione isolata. Il portale delle imprese diventa lo spazio che progressivamente si arricchirà di tutti i 6 documentari inveritas business per fare in modo che tutti gli interlocutori possano partecipare alla narrazione in una rete sempre più ampia. Come nei nodi di una synapsis espansiva ed inclusiva, infatti, ogni documentario non viaggerà isolato, ma rimanderà costantemente agli altri. Questo è il Tribal Networking alla base del Social Marketing, nell’ambito di una strategia conoscitiva e comunicativa autoriflessiva che rimette al centro dell’attività la cultura organizzativa riconoscendo la centralità delle imprese, delle comunità, dei loro valori in una progressione dalla verità alla consapevolezza.

Una sentenza di morte del 1772 a Serramanna

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Come riportai in un articolo del 2011, intitolato “Sa justitia de Serramanna” (clicca qui per leggere l’articolo), nel “Vocabolario sardo-italiano e italiano-sardo coll’aggiunta dei proverbi sardi” di Giovanni Spano dell’anno 1852, alla pagina 43 si trova il proverbio sardo, che recita: «Sa justitia de Serramanna», con relativa spiegazione:

La giustizia di SerramannaCioè severa e terribile, si ha per tradizione che in questo villaggio ne appiccarono in una volta 35.

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Il 27 luglio 1854, in nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II re di Sardegna, la Corte d’Appello di Cagliari, emanò quella che pare sia stata l’ultima condanna a morte operata a Serramanna.

Il 30 novembre 1786 il granducato di Toscana fu il primo stato al mondo ad abolire la pena capitale, emanando la “Riforma criminale toscana” (o leopoldina) a firma del granduca Pietro Leopoldo, primo esempio di abolizione totale della pena di morte; seguito poi dalla Repubblica di San Marino, nel 1865.

Nel Regno d’Italia, la pena di morte fu cancellata nel 1889, reintrodotta poi dal fascismo nel 1926 e nuovamente eliminata, dalla Costituzione repubblicana nel 1948.

A Serramanna, il patibolo per l’impiccagione veniva montato in località “Su Mobìu (Su Mobìnu)”, più o meno in corrispondenza dell’attuale piazzetta con lo zampillo.

Pochi giorni fa sono entrato in possesso di una sentenza del 1772; dire che fa rabbrividire è poco…

Ma partiamo dalle origini della pena di morte.

Il principio del taglione fu applicato inizialmente anche nel diritto romano e, più tardi in quello germanico. L’espressione latina che indica il condannare a morte era damnare capite o damnarecapitis. Nell’antica Roma fu codificato nelle “Leggi delle XII tavole” (V secolo a.C.), dove nella VIII, si legge: «Si membrumrupsit, ni cumeopacit, talio esto»(Se un tale romperà un membro a qualcuno, se non interviene un accordo, si applichi la legge del taglione).

Ovviamente la legge del taglione prevedeva la pena di morte per l’omicidio, ma si poteva venir condannati a morte anche per altri delitti; nel mondo latino, nei primi secoli, erano puniti con la morte i crimini ritenuti di pubblico tradimento, mentre per i delitti privati si applicava la legge del taglione. Nell’antica Roma erano considerati reati gravissimi, sanzionabili con la massima pena, non solo il tradimento della patria o la rivolta contro l’autorità, ma pure lo spostare un cippo che delimitava il confine di un campo, il rubare il bestiame o il raccolto altrui, l’uccidere, lo stuprare, il violare una promessa, il dare falsa testimonianza, il rubare di notte, l’incendiare una casa o le messi, il rubare al padrone, l’ingannare un cliente.

Nel Medioevo europeo molti soggetti potevano comminare pene, anche quella capitale, in quanto il sistema feudale tipico del periodo fu caratterizzato da una grande sovrapposizione di autorità: il potere dello Stato che era sì riconosciuto al re o all’imperatore, ma a questi si affiancavano sia i feudatari sia i magistrati cittadini, investiti entrambi del compito di amministrare la giustizia.

Vi era, inoltre, il potere religioso, molto influente sui poteri civili, tanto che questi ultimi divennero spesso il braccio armato della fede. Tutto questo determinò il frequente e discutibile utilizzo della pena di morte, che poteva essere decretata, oltre per l’omicidio, per i reati di furto, tradimento e sacrilegio.

Nel corso del XVI e del XVII secolo si assistette a un consolidamento o, per dir meglio, a un vero e proprio trionfo della violenza legale in nome della “ragion di stato” e la pena capitale, accompagnata da ogni sorta di torture raccapriccianti, veniva inflitta per punire una vastissima gamma di reati, anche di minore entità.

Eclatante il caso della Francia, dove durante il periodo post-rivoluzionario, fra il 1793 e il 1794 fu compiuta una vera e propria carneficina: i tribunali rivoluzionari condannarono alla ghigliottina almeno 35.000 civili, rei d’aver turbato l’ordine pubblico o anche d’aver semplicemente manifestato ideologie politiche avverse a quelle rivoluzionarie.

Solo dalla fine del XVIII secolo, con il progressivo diffondersi del pensiero illuminista su molteplici strati sociali, si cominciò a mettere in discussione la validità stessa della pena di morte, ritenuta ormai in contrasto con i nuovi principi umanitari affermatisi proprio in quel periodo.

Ed ecco quindi spiegato perché la pena di morte, in precedenza assimilata a una sorta di spettacolo per il popolo che si riuniva nelle piazze per assistere alle pubbliche esecuzioni, nel Settecento inizi a risultare sgradita al popolo.

Tale critica mossa nei confronti della pena di morte e, più in generale, dell’intero sistema giuridico dell’epoca, fu promossa da uno dei più grandi filosofi illuministi italiani del periodo, Cesare Beccaria: egli, infatti, scrisse un saggio, Dei delitti e delle pene (pubblicato nel 1764), destinato a rivoluzionare il concetto stesso di pena, reputandola vertice di inciviltà gestito dallo Stato, nonché vera e propria vendetta legalizzata.

Gli argomenti addotti da Beccaria sono pressappoco gli stessi, davvero ardui da confutare, che ancora oggi vengono ripetuti contro la prosecuzione della pena capitale. In particole riconosce la validità della pena di morte esclusivamente per quegli Stati interessati da una particolare situazione di debolezza istituzionale, in cui i criminali siano in grado di compiere qualsiasi reato senza il timore di subire la corrispondente sanzione. Nel Settecento, tuttavia, con il progressivo rafforzarsi degli Stati nazionali per merito del dispotismo illuminato, la pena di morte perde la sua utilità. Infatti, se lo Stato è in condizione di controllare efficacemente il territorio e la popolazione, allora punirà senz’altro il criminale, il quale, sapendo che se violerà l’ordine pubblico sarà punito, tenderà a non infrange la legge e non lo farà anche in assenza della pena di morte.

Ma tornando al mio recente ritrovamento, avrei piacere di condividerlo, anche per aprire uno spaccato di ciò che avveniva qualche secolo fa nella nostra comunità.

Sentenza

La Reale Udienza di S. M. in Cagliari sedente

Unite le Sale in esecuzione della Regia Patente otto maggio precorso nella causa del Regio Fisco

contro

B.L. del fu Antonio, L.L. del fu Biagio del luogo di Serramanna e G.M.P. del fu Antioco del luogo di Villasor, ed abitante nel suddetto di Serramanna, ditenuti in queste Regie carceri, ed inquisiti

D’avere la notte dé 22 venendo alli 23 novembre 1771 in compagnia d’altri assalito nella strada pubblica, regione detta Pontina-Cossu, territorio del luogo di Serramanna, il Corriere della Posta di questo Regno G.A.S. munito in fronte delle solite Regie insegne, e traducendolo all’altra vicina regione detta di Riu-Estius territorio del luogo di Samassi, averlo ivi barbaramente ucciso, con separarli anche la testa dal busto, e successivamente depredato del cavallo, abiti, e valigie, nelle quali, oltre alle lettere, ed altre scritture, comprendeansi due partite di denaro, una di zecchini Romani 32. Reali 15 e denari 2., e l’altra di lire 42. 10. Sarde.

Udita la relazione degli atti, e reiette le istanze, e deduzioni, ultimamente per parte degli inquisiti in essi atti fatte, ha pronunciato, e pronuncia doversi condannare, come condanna li sovranominari B., e L.L., e G.M.P. ad essere pubblicamente appiccati per la gola presso il luogo del commesso delitto fino a che l’anima sia separata dal corpo, e questo fatto cadavere ha mandato, e manda spiccarsi dal medesimo le teste, e conficcarsi sovra il patibolo, e ridotto in quarti il loro busto affigersi quelli ne’ luoghi, e modi soliti, con abbruciarsi successivamente il rimanente de’ cadaveri, e spargersene le ceneri al vento: torquiti però pria nel capo de’ complici, anche in conformità del Regio editto 13 marzo 1759, condannando altresì li medesimi solidariamente nell’indennizzazione verso gli eredi dell’ucciso, ed altri danneggiati, e nelle spese.

Cagliari li 26 settembre 1772

Per detto Magistrato della Reale Udienza

Pinna Segretaro

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Come si diceva all’inizio, “Sa justitia de Serramanna”, veramente severa e terribile e ampiamente giustificava il temuto “Ancu ti currada sa giustizia de Serramanna”…

 

“Imparai su sardu. In sardu”, corso gratuito a cura dell’UniTre di Serramanna.

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Il 14 novembre 2014 è stato inaugurato il quinto anno accademico dell’Università della Terza Età, e a dicembre si è aperto il considerevole programma culturale con l’incontro dapprima con Maddalena Frau e il suo “tramas de seda“ [http://www.aserramanna.it/2014/11/parte-a-dicembre-lofferta-culturale-dell-unitre-di-serramanna/], seguito dall’incontro con lo scrittore Paolo Castie la sua vista insolita su Serramanna attraverso storia, leggende, curiosità, persone e luoghi(con l’approfondimento su la contea di Serramanna alla vigilia del 400° anniversario: da Antonio Brondo a Luis Crespi, XIV Conte di Serramanna” [http://www.aserramanna.it/2014/12/serramanna-insolita-video-paolo-casti/].

Ora l’UniTre organizza un corso dal titolo “Imparai su sardu. In sardu“, a cura del Prof. Francesco Casula.

La partecipazione al corso è completamente gratuita.

Il corso inizierà il 24 marzo 2015, alle ore 16.30 e le lezioni si terranno presso i locali dell’Associazione, in Via Rosselli 1 a Serramanna.

Il corso proseguirà ogni martedì alla stessa ora, per le sette settimane successive, e sarà dedicato in modo particolare allo studio della grammatica, della sintassi, della morfologia, della grafia e della fonetica.

Curriculum del Prof. Francesco Casula

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Francesco Casula nasce a Ollolai (NU). Dopo aver frequentato le scuole medie e superiori dai Gesuiti, ha frequentato il Liceo “Sociale” di Torino, e si è laureato a Roma nel 1970, in Storia e Filosofia.

Dopo aver insegnato a Macomer (Storia e Filosofia al liceo e Italiano e Storia all’Istituto Tecnico e per Geometri) si è trasferito a Cagliari dove ha insegnato per più di trent’anni Italiano e Storia negli Istituti superiori, soprattutto all’Istituto Tecnico Commerciale “Martini”.

È giornalista pubblicista dal 1989 ed è regolarmente iscritto all’Albo dei giornalisti pubblicisti.

È stato collaboratore de“L’Unione Sarda” per i problemi della scuola e ha scritto in lingua italiana e in lingua sarda anche per il quotidiano “Il Sardegna”, dove ogni sabato curavala rubrica “Memorie”; per il periodico “Sa Repubblica sarda”, per la rivista “Camineras” di Sassari, per “Lacanas”, rivista bilingue delle identità, fondata e diretta da Paolo Pillonca.

È attualmente Direttore Responsabile e redattoredi “Liberatzione sarda“, periodico bilingue e di  “Madiapolis” periodico degli studenti universitari di Cagliari.Negli anni passati è stato direttore responsabile de “Il Solco”, il prestigioso giornale del PSD’AZ e di Emilio Lussu e del periodico bilingue della Confederazione sindacale sarda “Tempus de Sardinnia“ e anche di “Liberamenti”periodico di Quartucciu,di “Clacson” periodico di Dolianova e “Saturru”, periodico di Selargius.

Ha scritto complessivamentecirca mille articoli su riviste, periodici e quotidiani sardi e italiani, in lingua sarda e in lingua italiana.

Numerose inoltre le sue pubblicazioni; per approfondimenti cliccare su:

http://truncare.myblog.it/2008/12/03/curriculum-francesco-casula/

Antiche tradizioni della Settimana Santa

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Le tradizioni del periodo di Pasqua sono in parte ancora vive, ma sono cambiate nel tempo.

Si facevano le pulizie di Pasqua e si ornava la casa al meglio che si potesse; questa tradizione si è conservata fino ai giorni nostri. La casa, doveva essere bella e accogliente perché passava il prete a benedirla.

Le donne preparavano i ravioli e i dolci per il giorno della festa; le formaggelle con la ricotta o con il formaggio, i pabassini, gli amaretti, il pai saba, i bianchini e preparavano anche la pasta, rigorosamente a mano e i bambini aiutavano tagliando le forme con le “rotelline”.

Per i bambini non c’era l’uovo di Pasqua, ma si preparava il pane di semola con l’uovo (su coccoicun s’ou); una vera e propria opera d’arte, che qualcuno fa tutt’oggi, anche se attualmente  è da considerarsi più un oggetto decorativo che un alimento.

Il pane allora si faceva normalmente il venerdì, quindi  quello che si mangiava a Pasqua era fatto il Venerdì Santo.

Altra tradizione, che ora si è persa, se non radicata sporadicamente, era quella di mandare is pardulas, a quelle famiglie che magari erano in lutto, e ovviamente non preparavano i dolci per Pasqua, o a qualche anziano, o ai malati. Era un modo come un altro per aiutare e far sentire la propria vicinanza agli altri.

Allora come oggi, le campane non venivano suonate dal Giovedì Santo fino alla Domenica di Pasqua. Per annunciare le ore della funzione religiosa, il sagrestano usava una tavola di legno, grande come un tagliere, a cui erano fissati uno o più battenti di ferro con lo scopo di sbattere sul legno per produrre rumore: sa matracca. Dietro di lui, una moltitudine di ragazzini faceva chiasso con su stròcci arrana, uno strumento fatto con una canna, o anche is tabedda s(tre pezzi di legno legati fra loro con il fil di ferro che permettevano di fare un forte rumore facendo sbattere le tavolette l’una sull’altra).

Il chiasso prodotto dalla “matracca” e dagli altri chiassosi strumenti era una chiararievocazionedel tumulto venutosi a creare quando i soldati romani, con Giuda traditore, andarono nell’Orto degli Ulivi per arrestare Gesù.

Questi dispositivi sonori cui si è fatto cenno sono accomunati dalla assordante rumorosità che riuscivano a produrre, ma anche dallo stretto rapporto che li legava ai riti della Settimana Santa.

Forse per questo motivo non sono mai stati considerati strumenti di gioia o di divertimento.

Al contrario, riportano alla mente la tristezza e la profonda pietà popolare di quei giorni che solo le campane a festadella Pasqua di Resurrezione, riescono a superare e a far dimenticare.

Infatti, la domenica di Pasqua, con Gesù risorto, quando cominciavano a suonare le campane a festa i ragazzi in segno di gioia andavano a tirare le pietre nelle porte delle case abbandonate.

Approfondimento

Ricetta de “su coccoicun s’ou”

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Ingredienti:1 kg di Semola fine, 30 g di lievito madre (su fromentu), Acqua, Uova, Sale

PREPARAZIONE
Prima di fare il pane preparate su fromentu (lievito madre) facendolo ammorbidire nell’acqua tiepida. Lavoratelo aggiungendo un pizzico di sale e lasciatelo riposare sommerso di farina in un cesto coperto con un telo. Successivamente impastate la semola con l’acqua salata e calda. Aggiungete all’impasto il lievito sciolto e lavorate vigorosamente per amalgamare con cura la pasta. L’operazione seguente è quella più dura, cioè di distendere, spianare e battere la pasta con le mani su un piano preferibilmente in legno. Per fare questo aiutatevi con l’acqua tiepida fino ad ottenere un composto morbido ed elastico. Di seguito lavorate la pasta dentro i recipienti di terracotta, manipolandola con i pugni chiusi e premendola. Lasciatela riposare dentro un recipiente di terracotta coperta con un telo. A fermentazione ultimata lavoratela ancora una volta finché è pronta per essere modellata. Preparate i pani, fatte il buco al centro, metteteci l’uovo e fatte le decorazioni a vostro piacimento . Dopo aver confezionato i pani li ricoprite con un telo e fateli riposare per almeno due ore. Intanto preparate il forno, quando è pronto per la cottura, infornate e fatte cuocere a 250° per circa tre quarti d’ora.

[http://www.ricettedisardegna.it/coccoi-con-luovo]

“Sa matracca”

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Descrizione: Lo strumento è formato da una tavola rettangolare di legno stagionato e compatto (noce o castagno), sulla quale sono fissati degli anelli di ferro, uno o due per parte, con la funzione di sbattere nel legno. Sul lato superiore della tavoletta è praticata un’apertura che serve da impugnatura. Per far suonare lo strumento si ruota la mano in un senso e nell’altro alternativamente.

Uso:è diffuso in tutte le chiese della Sardegna, essendo uno degli strumenti usati nella settimana santa.

“Is tabeddas”

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Descrizione: Strumento ritmico della famiglia delle nacchere. E’ costituito da tre tavolette lisce. Al legno centrale, che funge anche da manico, sono fissate due tavolette per mezzo di uno spago o fil di ferro, in modo tale da lasciare tra di loro, un gioco che dia loro la possibilità di oscillare.

Uso: Veniva prevalentemente usato dai bambini nella settimana santa per sostituire il suono delle campane, e in altre circostanze per accompagnare il ritmo e i movimenti di danze sarde.

“Su stròcci arrana”

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Descrizione: Il congegno è costituito da un tubo di canna, in due estremità del tubo con due incisioni longitudinali e parallele si asportano due stecchette della lunghezza di circa otto centimetri, creando così una conveniente apertura per l’inserimento di una ruota dentata di legno duro.

Dal piede dell’apertura si crea una striscia a forma di ancia. La ruota di legno, precedentemente forata al centro, viene fissata al tubo mediante un asse, anch’essa di legno che funge sia da perno che da manico.

Facendo perno con la mano sull’asse che fissa la ruota imprimendogli un senso rotatorio, si ottiene come risultato la rotazione del tubo e allo stesso tempo, tramite la ruota dentata, di sollevare a intervalli regolari l’ancia libera facendola scattare.

S’Incontru di Pasqua 2015: filmato e fotografie dell’incontro

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Domenica 5 aprile 2015, nel giorno di Pasqua, si è svolto il tradizionale Incontro tra la Vergine Maria e il Cristo Risorto.

I due simulacri sono partiti rispettivamente dalla chiesa di San Leonardo e da quella di Sant’Ignazio da Laconi, per poi incontrarsi nella Piazza Matteotti dove la Madonna e il Cristo si sono ritrovati l’una di fronte all’altro salutandosi con un triplice inchino.

I cortei delle due comunità si sono dunque uniti e, accompagnati dalla Banda Musicale “G. Verdi” di Serramanna, hanno concluso la processione insieme verso la Chiesa di Sant’Ignazio da Laconi con i due parroci – Don Giuseppe Pes e Don Pietro Mostallino – e con l’Arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio.

È stato un incontro tra le due comunità parrocchiali serramannesi, unite con un solo fine: quello di festeggiare la resurrezione del Cristo. Dal 2013 infatti, in accordo con l’esortazione dell’Arcivescovo, le celebrazioni della Pasqua avvengono in comunione e collaborazione tra le due parrocchie. Sia la processione de “S’Incontru” che la Santa Messa di Pasqua vengono celebrate, seguendo il principio dell’alternanza con il Corpus Domini.

L’anno prossimo la Madonna partirà da Sant’Ignazio e il Cristo Risorto da San Leonardo. Il rito de “S’Incontru” avverrà nella Piazza Martiri e i due simulacri proseguiranno insieme verso la Chiesa di San Leonardo.

Video de S’Incontru

Galleria Fotografica

Ecco alcune fotografie dell’evento, scattate da Luigi Atzori.

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Aperitivo d’Autore con Paolo Casti – Intervista e Filmato della serata

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Ennesima occasione, il 30 aprile scorso, in cui si è potuto parlare e sentir parlare di storia, tradizioni e di persone che hanno dato lustro a Serramanna.

Questo presso l’Aperitivo d’Autore, dove Paolo Casti – studioso e appassionato di storia locale – ha concluso il suo intervento dicendo:

“Abbiamo visto che anche Serramanna ha avuto degli uomini che le hanno dato lustro e vorrei permettermi di dire che nel nostro paese si potrebbero addirittura istituire dei premi o dei concorsi come minimo di levatura regionale se non addirittura nazionale o internazionale; pensate a:

1 – Premio Vico Mossa dedicato all’Architettura

2 – Premio Giovanni Battista Melis avente come tema l’Agricoltura

3 – Premio Franco Putzolu sul tema del Disegno e del fumetto

4 – Premio Giovanni Solinas su temi Letterari e Filosofici

5 – Premio Itala Testa in tema di cucina (o cucina sarda)

Qualcuno storce il naso, ma io invece son convinto che anche qui come in altri paesi si potrebbe fare qualcosa; pensate a Villacidro col premio intitolato a Dessì.

Abbiamo un potenziale enorme tra le mani, e basta semplicemente crederci per realizzare un qualcosa di importante.

Pensate ad esempio all’istituzione di un concorso di idee di Architettura intitolato “Premio Vico Mossa”, organizzato in collaborazione con l’Università e il Comune di Sassari e col patrocinio della Regione Sardegna con magari a tema il restauro di un centro storico o di un monumento, una casa in mattoni crudi…

O un premio intitolato a Franco Putzolu inserito in un congresso fieristico sul disegno, murales, fumetti o dipinti da realizzarsi magari negli ampi locali dell’ex Cantina Sociale.

Solo fantascienza? Io non credo.

Come per tutte le cose, bisogna crederci e lavorare sodo per realizzarle”.

Qualcuno commentando la serata, ha detto: “È stato piacevole sentir parlare in termini così positivi del nostro paese e dei personaggi di maggior rilievo. C’è davvero bisogno di positività!”.

Paolo, ha voluto incentrare il suo intervento sul “NOI”, ovvero sul fatto che Serramanna siamo noi, e noi tutti siamo compartecipi del suo progredire e del suo andare avanti come pure del contrario; quindi una grande iniezione di positività e un rigetto del “tanto non c’è nulla” e del quadro che ne verrebbe fuori se ci si soffermasse a leggere solamente i titoli dei quotidiani, che notoriamente tendono a dar risalto alle notizie di cronaca nera piuttosto che alle iniziative o alle notizie positive.

È stato veramente interessante, ed’è stata palpabile, l’enfasi con cui ha “decantato” in che modo dei semplici cittadini hanno voluto dedicarsi e dedicare del tempo a dare lustro e prestigio al loro paese, al nostro paese, Serramanna.

Vico Mossa, Giovanni Battista Melis, Franco Putzolu e Giovanni Solinas, senza dimenticare Itala Testa e le sue “Lunas de Serramanna”, son state certamente delle piacevoli scoperte o riscoperte per chi già li conosceva; la semplicità e la garbatezza delle descrizioni hanno fatto sì che una serata di grande spessore, scivolasse via leggera senza annoiare il pubblico presente.

aperitivo d'autore paolo casti

Oltre a deliziarvi col video della serata, proponiamo un intervista a Paolo Casti, ad opera di Valentina Spiga, anche lei appassionata e scrittrice provetta; buon ascolto e buona lettura.

  1. Da quanto tempo non vivi più a Serramanna?

Ho la residenza a Domusnovas dal 2003, e vi abito dal 2005… mio malgrado; nel senso che io e mia moglie, anche lei serramannese, abbiamo deciso per motivi logistici e lavorativi di stabilirci qui, ma seppur breve la distanza, il distacco è “pesante”.

  1. Perché hai iniziato le tue ricerche?

Non posso trovare un punto da cui ho iniziato le mie ricerche o datare questo evento, ma come dissi nella conferenza tenuta a Dicembre 2014, sicuramente un fatto cruciale è stato quando mio padre, per il mio 13° compleanno mi regalò «Sardegna Nostra» di Giuseppe Struglia, un libro in due volumi sulla storia della Sardegna e rimanevo affascinato da ciò che leggevo … nuraghi, conquistatori spagnoli e tombe dei giganti… mentre nel secondo volume c’erano – ci sono – alcune righe su ogni paese e ricordo che di Serramanna citava la chiesa di San Leonardo, la cantina e ne vantava le produzioni agricole di carciofi e pomodori.

  1. A quanti anni hai iniziato a raccogliere i tuoi primi documenti per dare risposta alle tue domande?

Credo dal 1985 stesso… ricordo che ritagliavo il giornale se riportava notizie di Serramanna; purtroppo non ho più le cose più vecchie. Cominciai prestissimo anche a cercare e conservare vecchie cartoline, bigliettini da visita etc… Conservo ancora i calendarietti pubblicitari de “Su Stazzu”, “Dal Baffo”, “Midnight” etc…

  1. Sicuramente hai raccolto molto nel corso degli anni, ma dove trovavi le tue “fonti”? Avevi qualcuno che ti aiutava nelle tue ricerche?

Mai! Come ho detto giovedì durante l’aperitivo d’autore, purtroppo non ho avuto il supporto di nessuno, anzi ho sempre trovato porte chiuse, diffidenza e invidia; l’unica persona che mi ha dato qualcosa è stata la signora Margherita Medda (moglie di Giovanni Battista Melis), per il resto, il nulla, ho sempre fatto tutto da solo… ricerche sul campo, archivi digitali e cartacei, biblioteche etc…

  1. C’è stata una ricerca che ti ha impegnato di più, in termini di tempo e/o difficoltà?

Le ricerche che più mi hanno impegnato ma al contempo dato le maggiori soddisfazioni son state in primis quella sul Conte di Serramanna e sui Murales e per ultima quella su Antoniccu Ledda… son state tutte e tre un susseguirsi e un crescendo di scoperte e di incontri davvero incredibili e inimmaginabili. Ricerche, alcune delle quali, son state ahimè troppo semplicisticamente bollate come superficiali, benché corredate da pagine di fonti attendibili, citazioni e documenti, e questo un po’ mi è dispiaciuto, ma tant’è non ho mai fatto nulla per compiacere alcuno, ma sempre e solamente guidato dalla mia sete di conoscenza e dalla mia passione.

  1. Quanto tempo dedicavi alla tua passione e come ti organizzavi? Quanti anni ci sono voluti per avere materiale per i tuoi libri?

Non è che vi ho dedicato del tempo nel senso letterale del termine, nel senso che molte notizie e scoperte sono arrivate per caso, magari anche parlando di tutt’altro; per farti un esempio, anche la ricerca sul Conte di Serramanna è nata quasi casualmente quando in Comune adottò lo stemma e il gonfalone. Vidi lo stemma che riportava l’emblema del 1° Conte e mi chiesi “Chi sarà stato l’ultimo?”… mi venne naturale.

La “storia” dei libri è curiosa, nel senso che inizialmente non avevo propriamente l’idea di stampare un libro. Avevo inizialmente completato la ricostruzione della storia del titolo del Conte di Serramanna e mi sarebbe piaciuto creare il libretto che la raccontava; lo intitolai “Serramagna” e lo proposi agli amministratori comunali di allora (2010 n.d.r.) dicendogli che glielo cedevo senza volerci guadagnare sopra a patto che loro lo stampassero e lo rendessero di pubblica fruibilità, ma oltre alle promesse non se ne fece mai nulla. Nel frattempo avevo altre ricerche, curiosità etc che pubblicavo sia sul quindicinnale “Il Provinciale del Medio Campidano” che su ASerramanna.it, e qualcuno scherzando mi disse: “Ci bessidi ‘u libru”… tanto mi dissero e tanto feci… autopubblicai il mio primo libro… fedele al moto che “chi fa da sé fa per tre”.

  1. E’ arrivato anche per te quel momento in cui, per un motivo o per un altro, hai perso la tua voglia di andare avanti nelle tue ricerche?

Si e no. Come ti ho detto prima, il fatto di scrivere a prescindere da tutto e tutti e soprattutto supportato da una forte passione hanno fatto si che seppur con qualche periodo di calo dell’entusiasmo ho sempre cercato di andare avanti. Pensa che anche in questi giorni, trovandomi a far visita ad un parente all’ospedale, mi ha colpito un quadro visto in un corridoio… la foto di un murales di Serramanna, scattata nel 1982, in cui vi è riportato l’autore… e giù nuovamente con le domande “perché?”, “chi è questa persona che scattò la foto?” e così via…. È una cosa incontrollabile e quindi non gestibile razionalmente seppur in certi momenti verrebbe davvero voglia di mollare tutto.

  1. Quale è stato l’argomento che ti ha più incuriosito e appassionato?

Quelli già citati: Murales, il Conte.

  1. Perché hai voluto condividere la tua passione con gli altri pubblicando i tuoi libri?

Perché la conoscenza delle nostre radici e della nostra storia non devono essere patrimonio di un singolo o di pochi eletti, ma di tutti i serramannesi; la cultura e la conoscenza non sono né di destra né di sinistra e non hanno un prezzo.

  1. C’è qualche domanda che ti sei posto per la quale non hai saputo dare o trovare risposta?

Domande tante… le risposte le sto ancora cercando…

In ricordo dei caduti di Serramanna nella 1^ Guerra Mondiale 1915/18

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poster

Il 24 maggio 1915 l’ITALIA ENTRA IN GUERRA; titolava il “Corriere della Sera”: “Guerra! La parola formidabile tuona da un capo all’altro dell’Italia e si avventa alla frontiera orientale, dove i cannoni la ripeteranno agli echi delle terre che aspettano la liberazione: guerra! E’ l’ultima guerra dell’indipendenza. […] L’ultimo capitolo del risorgimento!”

Mentre “traditori”, “venduti”, “razza di briganti”, “ricattatori” sono solo alcuni dei cordiali appellativi rivolti agli italiani dalla stampa austro-tedesca.

Al fronte le operazioni belliche iniziarono in piena notte: alle 4:30 un proiettile austriaco uccide l’alpino diciannovenne Riccardo Giusto; è il primo caduto italiano.

Serramanna come tutti i paesi, città e regioni italiane diede il suo contributo; quello che segue è il triste elenco dei giovani serramannesi che hanno dato laro giovane vita per la Patria, per una patria che probabilmente nemmeno sentivano loro.

Ciò che più colpisce leggendo le “schede” sintetiche è l’età di quei ragazzi, perlopiù 19 o 20 anni; non credo sia nemmeno immaginabile oggi concepire che un proprio figlio poco più che maggiorenne (ma ricordiamoci che allora la maggiore età era 21 anni) parta dall’oggi al domani per andare in guerra.

Un’altra cosa che salta agli occhi è l’appartenenza della maggior parte di loro alla gloriosa e pluridecorata Brigata Sassari nel  151° e 152° reggimento.

Murgia Leonardo, Caporale maggiore del 151° reggimento fanteria  e Palmas Giuseppe, Caporale del 209° reggimento fanteria hanno inoltre ricevuto la Medaglia d’Argento al Valor militare.

Tocco Eugenio, sergente maggiore del 151° reggimento fanteria è stato insignito della Medaglia di Bronzo al Valor militare.

murgia leonardo

Murgia Leonardo

PALMAS GIUSEPPE

Palmas Giuseppe

Tocco Eugenio

Tocco Eugenio

Elenco Caduti Serramannesi

  1. ARGIOLAS FRANCESCO
  2. ARIXI EFISIO
  3. BARBATI COSIMO
  4. CABONI GIORGINO
  5. CADELANO ASSUNTINO
  6. CANARGIU ANTONIO
  7. CARBONI GIUSEPPE
  8. CHIA CARMINE
  9. COSSU EUGENIO
  10. COSSU LUIGI
  11. CUCCU DANIELE
  12. DEIDDA GIOVANNI ANTONIO
  13. DEIDDA LUIGI
  14. DESSÌ ANTONIO
  15. ETZI GIUSEPPE
  16. FARCI ANGELINO
  17. FARRIS ANTONIO
  18. FENU GIOVANNI ANGELO
  19. FENU GUGLIELMO
  20. INCANI AGOSTINO
  21. LASIO GIUSEPPE
  22. LEO SALVATORE
  23. LILLIU CESARE
  24. LILLIU FRANCESCO
  25. LUSSU SALVATORE
  26. MACCIONI SALVATORE
  27. MEDDA GIOVANNI
  28. MELAS FRANCESCO
  29. MOCCI LUIGI
  30. MURGIA LEONARDO
  31. MURGIA VINCENZO di ANGELO
  32. MURGIA VINCENZO di GIOVANNI
  33. MURRU SALVATORE
  34. ORRÙ ANTONIO
  35. ORTU FRANCESCO
  36. PALMAS GIUSEPPE
  37. PEZZA RAFFAELE
  38. PILLITU LUIGI
  39. PILLONI EFISIO
  40. PILLONI RAIMONDO
  41. PORCEDDU GIOVANNI
  42. PORCEDDU VITTORIO
  43. PUTZOLU GIUSEPPE
  44. SABA ORAZIO
  45. SAIU ANTIOCO
  46. SANNA LEONARDO
  47. SCAMUTZI GIOVANNI
  48. SCANO AURELIO
  49. SCANO GIUSEPPE
  50. SEDDA EFISIO
  51. SERCI AGOSTINO
  52. SERCI GIOVANNI
  53. SERCI GIUSEPPE fu DELFINO
  54. SERCI GIUSEPPE fu GIOVANNI
  55. SERCI RAFFAELE
  56. SERRA FRANCESCO
  57. SERRA GIOVANNI BATTISTA
  58. SPADA FAUSTINO
  59. TOCCO DANIELE
  60. TOCCO EUGENIO
  61. TOCCO FRANCESCO
  62. TOESCHI CARLO
  63. TRUDU EFISIO
  64. VARGIU FRANCESCO
  65. VIRDIS LORENZO
  66. ZUCCA FRANCESCO
  67. ZUCCA GIUSEPPE
  68. ZUDDAS ANTONIO di EFISIO
  69. ZUDDAS ANTONIO di SALVATORE
  70. ZUDDAS GIUSEPPE

I nomi in grassetto, sono evidenziati in quanto di essi non ho trovato notizie certe, mentre degli altri è riportata data di nascita e circostanze del decesso, tratte dall’”Albo d’oro” Vol. XIX stilato post conflitto a cura del Ministero della Difesa – Commissariato generale onoranze caduti in guerra.

Altri ragazzi di Serramanna, decorati, che però ebbero la fortuna di tornare a casa, furono:

ETZI Carlo da Serramanna (CA), sottotenente complemento reggimento fanteria, Medaglia d’Argento: “Ferito, non abbandonava il combattimento, e, morto il capitano, assumeva il comando della compagnia, tenendolo per più giorni in modo lodevole e dando esempio di calma e coraggio, finché, nuovamente ferito, fu costretto ad abbandonare la linea di fuoco. Carso, 31 luglio 1915

CHIA Angelino da Serramanna (CA), caporale bersaglieri, matricola 5334. Medaglia di Bronzo: “Offertosi volontario per un’azione ardita, giungeva fra i primi sulla posizione nemica dando esempio di calma, coraggio e valori singolari. Seconda cima del Colbricon, 13 aprile 1917

Paolo Casti

Giustino Pittau di Serramanna, caduto durante i fatti di Buggerru del 1904

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veduta di Buggerru

Nel 1867 alcuni deputati sardi si adoperarono per alleggerire le condizioni di miseria delle popolazioni dell’isola.

In seguito alla rivolta dell’aprile del 1868, de “su connottu”, a Nuoro, in seguito all’approvazione delle norme che prevedevano la privatizzazione dei beni demaniali, venne istituita una commissione parlamentare di inchiesta della quale faceva parte il deputato Quintino Sella.

Quintino Sella, ingegnere minerario, pubblicònel 1871 una relazione sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna, che costituisce tuttora un documento di straordinaria importanza. Nel corso di un viaggio (durato 18 giorni), guidato dall’ingegnere Eugenio Marchese, direttore del distretto minerario della Sardegna, visitò le principali miniere e gli stabilimenti metallurgici dell’isola e evidenziò le disparità di trattamento economico tra i minatori sardi e quelli di altre regioni.

A Buggerru, nucleo abitativo composto da tuguri spesso cadenti con gli alloggi operai che salivano a schiere lungo il pendio, era allora un grosso borgo di circa novemila anime, circondato dalle miniere che si incuneavano profondamente nel fianco roccioso delle colline, dove tutto apparteneva alla società francese proprietaria del complesso minerario, la “Societé des mines de Malfidano” di Parigi, che proprio qui aveva la sua sede operativa.

Pozzi, laveria, officine, magazzini, scuola, case, persino la terra, sulla quale nessuno poteva nemmeno piantare un albero.

Alla società francese appartenevano anche gli uomini, sottoposti a condizioni di lavoro durissime.

I minatori a Buggerru erano più di duemila e ad essi si aggiungevano i fanciulli e le donne adibite alla selezione dei minerali.

I salari erano bassissimi: dalle 2 lire e 75 centesimi al giorno per gli armatori che lavoravano all’interno, agli 80 centesimi per le cernitici.

Buggerru era chiamata «petite Paris» (piccola Parigi), in quanto i dirigenti minerari che si erano trasferiti nel borgo minerario con le rispettive famiglie avevano ricreato un certo ambiente culturale, vi era un cinema, un teatro ed un circolo riservato alla ristretta élite dei dirigenti della società francese.

Vi faceva da contrappeso la folta schiera dei minatori che lavoravano in condizioni disumane, sottopagati e costretti a turni di lavoro massacranti, spesso vittime di incidenti mortali sul lavoro; pian piano i minatori si riunirono nella “Lega di resistenza di Buggerru” che partecipò con i suoi delegati al secondo congresso nazionale della Federazione dei minatori.

I dirigenti della “Lega di resistenza di Buggerru“ erano due socialisti militanti, un certo Giuseppe Cavallera e Alcibiade Battelli, che per cercare risposta all’incremento dei salari ed il miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro, attuarono un’ondata di scioperi che cominciò dai primi mesi del 1904.

Il 7 maggio si verificò l’ennesimo incidente sul lavoro, che costò la vita a quattro minatori.

La protesta si intensificò nel mese di settembre, a seguito di una circolare diramata il giorno 2 dall’ingegner Achille Georgiadés, dove si comunicava che, a partire dal giorno successivo, la pausa tra i due turni di lavoro, quello mattutino e quello pomeridiano, sarebbe stata ridotta di un’ora.

Gli operai che lavoravano all’esterno della miniera di Buggerru avevano due orari l’anno: uno estivo, l’altro invernale. L’orario estivo prevedeva un intervallo di tre ore a partire dalle undici fino alle quattordici ed era consuetudine che tal orario fosse applicato fino al 30 Settembre, motivato dalla calura estiva che metteva a dura prova la resistenza fisica dei lavoratori nei mesi in cui il sole era torrido.

Col primo di Ottobre veniva introdotto l’orario invernale che riduceva l’intervallo a due ore, dalle undici fino alle tredici.

La reazione fu immediata e molto dura; cominciò lo sciopero dei minatori. Il 2 Settembre, non ottemperando agli ordini, gli operai si presentarono alle quattordici, come di consueto.

Il direttore fu irritato da tanta disubbidienza e convocò, la sera, tutti i capi servizio, ai quali, deplorando il fatto, diede ordine che comunicassero a tutti i lavoratori che non ottemperando alle nuove disposizioni, sarebbero stati licenziati.

Il giorno 3, gli operai del cantiere di “PlanuSartu” uscirono alle undici gridando: «alle due…. alle due» .

Alle tredici suonò la sirena di ripresa del lavoro e in tutti i cantieri vi era una presenza massiccia degli operai, compreso “PlanuSartu”, ma alle tredici e trenta gli operai lasciarono i loro posti di lavoro e attraversando l’omonima galleria, invasero la strada ferrata proseguendo verso il cantiere di “Malfidano”.

Giunti al piazzale di Malfidano gli operai fecero smettere di lavorare i minatori e le cernitrici dall’esterno quindi fecero risalire i minatori dai pozzi, bloccando l’attività di oltre 600 persone.

La notizia fu rapidamente di pubblico dominio ed a maggior ragione giunse alla direzione che per prudenza fece uscire dal lavoro gli operai delle officine, laverie e ateliers.

Lo sciopero nacque spontaneo, improvvisato e un po’ disordinato perché non programmato dalla Lega dei minatori.

Il segretario della Lega, Alcibiade Battelli, era a letto ammalato e saputo dell’agitazione andò incontro ai minatori per raccomandare loro la calma e la serietà. Telegrafò subito a Carloforte a Giuseppe Cavallera che sabato 3 sera, giunse, quasi contemporaneamente al delegato di pubblica sicurezza Mario Maffei ed al sottotenente dei carabinieri Bitti.

Sia il Cavallera che il Battelli tennero conferenze invitando gli operai a restare calmi perché mantenendo un contegno dignitoso, potessero meglio far valere le loro ragioni ed i loro diritti.

Alle ventuno un’onda di operai si riversò nelle officine dove lavoravano gli operai di servizio ai forni rotativi e alle caldaie.

Minatori di Buggerru

Furono fatti spegnere i fuochi e uscire gli operai, quindi passarono all’officina elettrica con l’intento di togliere l’energia elettrica nella via principale del paese, negli uffici della direzione e nell’ospedaletto.

L’intervento dell’allora responsabile dell’officina elettrica ing. Natali, unitamente alla collaborazione di Battelli, ottenne che almeno il luogo di cura restasse illuminato.

Ci fu un secondo richiamo alla calma da parte di Cavallera, ma i più facinorosi ritornarono all’officina elettrica per far fermare l’ultima macchina.

Intanto il direttore della miniera aveva informato telegraficamente il prefetto di Cagliari di quanto accadeva.

La mattina del 4 Settembre, di buon’ora, arrivarono da Cagliari il sottoprefetto cav. Nicola Valle con un capitano dei carabinieri ed il capo del regio ufficio delle miniere, ing. Folco.

Il cav. Valle riunì una commissione operaia, capeggiata dal Cavallera e da Battelli che preparò un memoriale ed assieme al capitano dei carabinieri si recarono dal direttore per discutere e comporre la controversia.

Il direttore della miniera non si faceva commuovere né dalle minacce, né dalle preghiere dei minatori, né dai consigli delle autorità e, tergiversando, prendeva tempo adducendo motivi che lo legavano nelle decisioni ai consensi della direzione di Parigi.

Intanto, in quella tragica domenica, partivano col treno delle sei da Cagliari due compagnie di soldati del 42° Fanteria al comando dei capitani Bernardone e D’Anna e dopo mezz’ora di sosta fatta ad Iglesias, alle nove, si misero in marcia lungo la strada di Belicai, S’Arilì e Grugua, transitarono per l’arco di Genne Arenas e alle sedici erano per le vie del paese fra l’accoglienza fredda della popolazione.

L’ing. Natali incaricato di accasermarli provvide che fossero alloggiati nei locali degli ateliers e a questo scopo lasciò tre operai per riordinare e disporre l’accasermaggio.

I militari si erano ritirati nell’atelier curando un servizio di guardia all’esterno mediante una sentinella.
Nell’ufficio del direttore era presente la commissione che si adoperava per comporre lo sciopero. Ne facevano parte: il cap. Bernardone, il cav. Valle, il delegato di pubblica sicurezza Maffei e Cavallera.

Sul piazzale della direzione un’ immensa folla attendeva il risultato e Battelli era fra gli operai per placare gli animi dei più facinorosi.

Erano le 16,20.

Dal gruppo si staccarono circa 200 persone e vociando andarono verso gli ateliers dove la sentinella di guardia osservava, con l’ordine di non far passare nessuno. Il vociare era confuso come disordinato era l’agire di taluni scalmanati e gradatamente divenne un coro che all’unisono gridava: «fuori… fuori…».

Si voleva che i tre operai che stavano allestendo i locali per i soldati, uscissero per unirsi agli scioperanti. Le urla misero sull’avviso i soldati per cui fu rafforzata la guardia.

Le urla diventarono più insistenti e dal gruppone ormai distante pochi metri dalle sentinelle si staccarono un pugno di operai che cercarono di entrare nel laboratorio.

I soldati si opposero cercando di respingerli.

Le urla si trasformarono in un lancio di sassi, di cui uno colpì ad un occhio la sentinella Costanzo ed un ufficiale al petto.

A questo punto, i soldati innestarono le baionette mentre la sassaiola si faceva più ritta e la folla premeva da presso i soldati per penetrare all’interno.

A nulla valsero gli inviti degli ufficiali Monesi, Bifano e Moscata mentre i soldati indietreggiavano oppressi da una folla sprezzante del pericolo.

Improvviso un urlo di un operaio s’erse sulla folla, ferito ad una gamba da una baionetta, quando già tre militari grondavano di sangue. La tensione della conflittualità esasperò tutti e dai fucili dei soldati partirono dei colpi.

Erano le 16,45. Si sparava! Le grida giunsero alla direzione e presto s’intuì la tragedia.

Il dottor Cavallera e il capitano Bernardone lasciarono di corsa la stanza delle trattative e con l’animo di evitare la tragedia giunsero all’atelier fra il fischiare delle palle ed il fuggi fuggi generale.

La loro presenza e la loro autorità consentirono il ritorno alla calma. La tragedia era ormai esplosa.

A terra giacevano morti: Littara Felice di 31 anni da Masullas e Montixi Giovanni di 49 anni da Sardara; fra i soldati vi erano 9 feriti.

Vennero portati all’ospedale: Giovanni Pilloni di Tramatza ferito gravemente al capo, Giovanni Porcu di Aidomaggiore, Giuseppe Angius di Villamar, e Giustino Pittau di Serramanna.

Il serramannese Giustino Pittau, morì il 21 settembre, all’ospedale, a causa delle ferite riportate al capo.

Lapide

Finita la sparatoria, furono arrestati i due fratelli Congiu sorpresi a gettare sassi contro i militari.

Le linee telegrafiche non erano interrotte per cui le notizie giunsero alla prefettura di Cagliari.

La giornata del 5 trascorse calma, Cavallera e Battelli unitamente a Siotto parlarono invitando la popolazione alla concordia e alla calma deplorando i fatti delittuosi del giorno prima.

A dimostrazione della volontà di ripresa, fermo restando lo stato di agitazione, i motori e gli impianti elettrici ripresero a funzionare garantiti dal servizio d’ordine dei militari.

Da Cagliari arrivarono altri 25 carabinieri, il maggiore Scotti del 42° Fanteria e l’aiutante maggiore in seconda con l’ufficiale medico Mathieu.

A “PlanuDentis” fu fatta stazionare una compagnia di soldati al comando del capitano Pappagallo, perché si vociferava che dietro l’apparente calma c’era la volontà di far proseguire i disordini.

La lega dei minatori, la società di mutuo soccorso e la cooperativa esposero vessilli abbrunati, mentre i muri delle case erano coperti dalle scritte: lutto cittadino.

Il giorno 6, ebbero luogo i funerali, riusciti imponenti, ai quali parteciparono più di 3000 operai oltre le donne e i bambini.

Al cimitero, il dottor Cavallera parlò, suscitando profonda commozione e raccomandando la calma. I soldati restarono consegnati.

Di sera giunsero a Buggerru: il prefetto di Cagliari comm. Ruspaggiari, il deputato Campus-Serra, il colonnello Cisterni del 42° Fanteria, il procuratore del Re Delitala e l’ispettore generale del ministero dell’interno avv. Dalmazzo.

ritaglio Unione

L’on. Giolitti, presidente del consiglio, subito informato dei fatti incaricò il sottosegretario agli interni, on. Di Sant’Onofrio di seguire direttamente i fatti e tenerlo aggiornato sugli sviluppi. Di Sant’Onofrio inviò, immediatamente da Roma, l’ispettore generale del ministero Dalmazzo perché avviasse un’inchiesta atta a far luce sui tatti e per stabilire eventuali responsabilità.

Ordinò al prefetto di Cagliari di recarsi sul posto per supervisionare l’evolversi della situazione.
Da Cagliari il comandante del 42° fanteria, colonnello Cisterni avviò un’inchiesta per appurare eventuali responsabilità dei militari e ufficiali implicati nella sparatoria.

La sezione socialista di Cagliari invitò i parlamentari socialisti ad una partecipazione attiva e l’on. Campus-Serra aderì per primo recandosi sul posto dove tenne un discorso molto distensivo e molto applaudito. Si ripresero i contatti fra la delegazione operaia. di cui facevano parte le autorità e la Malfidano, nella persona di Achille Georgiadés.

Dopo molto tergiversare, si addivenne ad una intesa, e cioè che il giorno 7, il lavoro riprendesse secondo l’ordine imposto dalla direzione della miniera, compreso il turno di riposo dalle 11 alle 13, inoltre dal giorno 8 il riposo ritornava ad essere quello abituale di stagione, cioè dalle 11 alle 14 per tutto il mese di Settembre.

A Buggerru si attese l’arrivo dell’amministratore della società, De Breton. Il lavoro riprese la sua attività normale, senza che i minatori si rendessero conto di aver acceso quella scintilla del sacro fuoco della rivendicazione operaia che maturandosi ha originato le moderne coscienze dei lavoratori, organizzati in correnti sindacali.

Questi fatti provocarono fortissime reazioni, l’11 settembre a Milano, per protestare contro la violenza manifestatasi a Buggerru, la Camera del lavoro approvò una mozione per lo sciopero generale da organizzare in tutta Italia entro otto giorni.

Qualche giorno dopo, il 14 settembre a Castelluzzo in Provincia di Trapani, si verificò un altro eccidio; durante una manifestazione dei contadini, che protestavano contro lo scioglimento di una riunione locale e l’arresto di un socialista, dirigente di una cooperativa agricola, i carabinieri avevano sparato sui contadini. Il 15 settembre a Sestri Ponente vi furono dei disordini per i fatti di Buggerru.

A seguito dei fatti di Castelluzzo, alla notizia dell’ennesima strage, l’indignazione raggiunse livelli altissimi. La Camera del Lavoro di Milano proclamò lo sciopero generale nazionale, che fu il primo d’Europa, che si protrasse dal 16 al 21 settembre ed al quale aderirono i lavoratori italiani di tutte le categorie.

Con legge 19 Luglio 1906 fu costituita una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal sen. Parpaglia di Oristano, che effettuò il primo sopralluogo nel 1908 e dopo aver fatto compilare questionari, ultimò i lavori presentandoli al parlamento nel 1911.

Fonti:

  • La Gazzetta del Sulcis-Iglesiente – N° 296 – del 06/2004 “Lo sciopero e l’eccidio di Buggerru del 1904”
  • Eccidio di Buggerru – Wikipedia
  • Immagine lapide (http://diquipassofrancesco.blogspot.it/2013/01/sardegnale-miniere.html)
  • Immagine minatori di Buggerru del 1904 (https://marcocasula.files.wordpress.com/2013/09/buggerru-1904.jpg)
  • Veduta di Buggerru (cartolina)
  • Ritaglio dell’Unione Sarda del 6 settembre 1904

Filastrocche o “imbalas” serramannesi

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filastrocche serramannesi storia

La tradizione sarda annovera una grande varietà di filastrocche (o “imbalapipius”), tramandatesi oralmente di generazione in generazione ed oggi quasi completamente dimenticate.

Alcune, sono comuni a numerose località, seppure con varianti più o meno consistenti.

Spesso hanno come protagonisti gli animali o gli insetti ed i fiori, tipici elementi legati al mondo agropastorale delle antiche comunità sarde; erano appunto delle filastrocche che si utilizzavano per distrarre e far giocherellare i bambini.

Quella che segue è una piccola raccolta di quelle in uso a Serramanna, che ovviamente non ha la pretesa di essere né completa né esaustiva, ma anzi vuole essere uno stimolo a ricostruire la nostra memoria popolare.

filastrocche serramannesi

Serra serra (Chiudi chiudi)

[Si faceva sedere il bambino a cavalcioni sulle ginocchia della mamma che teneva il bambino per le mani, e lo spingeva verso il basso sempre più veloce come se fosse in altalena, mentre diceva questa filastrocca]

Serra serra

pabas a terra

pabas a muru

Su topi in su muru

muru su topi,

tottu sa notti

tottu sa dì

-Varianti –

e chirighirighirighì (solletico)

-oppure-

po pappai a tì a tì (solletico)

-oppure-

fai su lettu e croccadì

 

Custu è su proccu… (Questo è il maiale)

[Filastrocca che si recita “tirando” le dita della mano del bambino, partendo dal pollice fino ad arrivare al mignolo]

Custu è su procu

custu dd’a mottu

custu dd’a cottu

custu si dd’e pappau

e a Pitticheddu no ndi dd’anti donau poìta adi scoviau (si tira con più vigore)

 

Babbaiola (Coccinella)

[Filastrocca che si recitava quando si trovava una coccinella, notoriamente considerata “portafortuna”]

Babbaiola babbaiola

piga su libru

e bai a scola

babaiola babaiola

piga s’aneddu

e bai a Casteddu

pottamìu aneddubellu

u aneddu po mi coiai

babbaiola pesa a bobai.

 

Babballotti (Scarafaggio o generalmente qualsiasi insetto che cammina per terra)

Babballotti , babballotti

su chi beidi a su notti

su chi beidiaintr’e dì

a ci pappai a tì, a tì.

Babballotti, babballotti

su chi andada a su notti

su chi andadataintr’e dì

babballotti fuidì.

 

Sana sana (Guarisci guarisci)

[Filastrocca che si recitava strofinando, talvolta anche con un po’ di saliva, la parte lesa – la bua – del bambino]

Sana sana, merda sana

merd’e cani, merd’e topi

tottu sa notti, tottu sa dì

Furriadi a pabasa e troddiadì.

 

Mamma non c’è

[Filastrocca che si recitava al bambino che piangeva perché la mamma si era allontanata]

Bhèbhè, mamma non c’è

e aundiè?

in sa scalitta

e it’è fadendi?

simbua fritta

e pochini è?

po s’angioneddu

beni mraxai e pappasinceddu….

 

Su sizzigorru (la lumaca)

[Filastrocca che si recitava tenendo in mano una lumaca e toccandogli l’antenna in modo da fargliela ritrarre e poi quando si riallungava si continuava toccando l’altra antenna]

Sizzigorru sizzigorru

boga pappu e boga corru

boga corru e boga pappu

si non bessis ti nci pappu!

 

Gattixeddu (Gattino)

Gattixeddu gattixeddu

bai e cassa ‘u pilloneddu

‘u pilloneddu bai e cassa

e papadiddu cun pabassa

cun pabassa e biu nieddu

gattixeddu, gattixeddu!

Intervista a professor Francesco Casula (parte I)

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La scorsa primavera si è tenuto nei locali di via Rosselli, organizzato dall’UNITRE di Serramanna, il corso gratuito “Imparai su sardu. In sardu”. Mentore del corso l’inossidabile ed entusiasta professor Francesco Casula da Ollolai. Interessato e curioso anche il discreto gruppo di allievi, tutti over 40, impazienti di imparare o anche solo migliorare la conoscenza della lingua sarda. Il professore, oltre alle regole di grammatica, sintassi e morfologia, ci porta a conoscenza di fatti storici spesso ignorati dai sardi, di libri e poesie scritti in limba che ci rivelano la ricchezza e la capacità espressiva della lingua dei nostri avi. Ed è durante una di queste lezioni che mi viene l’idea di una intervista al professore, il quale si dimostra subito disponibile e gentilissimo. Quella che oggi pubblichiamo è una prima parte, sette domande e risposte delle undici totali. Abbiamo pensato di dividerla perché le risposte, tutte interessanti, necessitano di una riflessione da parte di ogni sardo che si senta tale. Confesso che l’unico rammarico è che il tutto si sia svolto per via telematica, mentre avrei preferito un incontro frontale capace di far emergere emozioni e “sentidusu” che la distanza nasconde. Ma non è detto che ciò non accada in un futuro prossimo. Buona lettura a tutti e se ne nascerà un vivace dibattito, tutti avremo occasione di acquisire maggiore consapevolezza sull’essere abitanti di questa terra chiamata SarDegna.

Intervista Parte I

1) Quando e perché ha deciso che la divulgazione della lingua e della storia della Sardegna sarebbero diventate una sua attività?

Le radici sono da ricondurre alla mia attività di docente nei licei e nelle scuole superiori. Quando – nella scuola italiana in Sardegna – ho avuto modo di sperimentare una impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale, ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda. Che ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare attraverso la smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra le più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Ma c’è di più: una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi  e categorie che le “grandi civiltà” avrebbero voluto irradiare verso le “civiltà inferiori”, ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli. Di tale appiattimento, una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.

Nasce da questo contesto e da questa temperie pedagogica-didattica la mia scelta prima di insegnare la lingua sarda e la storia locale a scuola e in seguito di divulgarle, come tutt’ora faccio, dovunque posso. Perché i Sardi, partendo da radici robuste, – che solo la nostra lingua e la conoscenza della nostra storia può crearci – possano dotarsi di ali, altrettanto robuste, per volare alti nel mondo.

2) Ha senso oggi parlare di identità sarda?

Oggi più di ieri ha senso parlare di Identità sarda. Partendo dalla  convinzione e dalla consapevolezza che la standardizzazione e  l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.

3) Di cosa hanno bisogno i sardi per recuperare o, se vuole, per non dimenticare la loro identità?

Hanno soprattutto bisogno di conoscere la loro storia. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. La diversità ci salva dalla omologazione–standardizzazione

sardegna

4) Per anni ci siamo vergognati del nostro accento, della nostra lingua, in una parola vergognati di essere sardi. Oggi è ancora così o qualcosa sta cambiando?

Sia pure in modo ancora insufficiente, qualcosa inizia a cambiare nelle coscienze e nell’immaginario collettivo dei Sardi. Il senso di “vergogna di sé” è ancora forte e presente ma inizia ad essere incrinato.

5) Lei si è occupato di politica, di sindacato, di insegnamento: ritiene che queste tre attività siano capaci di dare risposte e opportunità ai sardi?

Finora il ruolo della politica come quello del Sindacato e della Scuola è stato gravemente insufficiente. Per responsabilità anche della “base”, di noi cittadini che avremmo dovuto essere più attivi, più protagonisti: tallonando continuamente politici, sindacati e scuola. E’ invece prevalsa la logica della delega, della de-responsabilità. Per cui molto spesso la politica è diventata affarismo, il Sindacato ha abbandonato il ruolo di difensore degli interessi dei lavoratori e la Scuola – come sosteneva Pier Paolo Pasolini – trasmettitrice di “residui retorici” e non creatrice e divulgatrice di cultura critica.

6) Secondo lei perché l’indipendenza e l’autonomia ci fanno paura? E perché sono diventate per i sardi parole vuote di significato?

Non sono parole vuole ma rischiano di esserlo. Nella misura in cui non riusciamo a riempirle di contenuti, progetti, visioni. Ci fanno paura? Non direi. E se così fosse è perché siamo stati abituati all’assistenzialismo dello Stato, senza il quale pensiamo che non ce la possiamo fare. Siamo tutt’ora convinti di essere dei nani che “aspettano giganti che li portino sulle spalle” (Marcello Fois in Dura Madre, pagina 192). Ma i giganti non esistono. E caso mai li abbiamo avuti noi i Giganti! Non dobbiamo cercarli altrove.

7) Lei oggi vive a Cagliari: eppure i festival letterari, le iniziative culturali partono quasi sempre dai piccoli centri. La provincia, is biddas, tengono vivo l’humus culturale dell’isola?

Condivido. Sono soprattutto is biddas a tenere vivo l’humus culturale identitario della nostra Isola. Così peraltro è stato nella nostra millenaria storia: con nostri paesi che hanno prodotto non solo cultura materiale (soprattutto agro-pastorizia) ma anche cultura immateriale.

Ricordo quanto scrive Bachisio Bandinu, forse l’intellettuale sardo più acuto e prestigioso:”Il pastoralismo ha dato vita all’intellettualità sarda. Proviamo a unire gli spezzoni della Sardegna a caratterizzazione pastorale a partire da Emilio Lussu e i cosiddetti re pastori di Armungia per arrivare in Ogliastra, Barbagia, Mandrolisai, Marghine, Logudoro e non solo. Pensiamo a Peppino Mereu, Mossa, Cubeddu, Murenu, la poesia orale degli improvvisatori, Deledda, Cambosu, Sebastiano e Salvatore Satta, Nivola, Ballero, Ciusa, i grandi avvocati nuoresi, Mastino, Oggianu, Pinna per non parlare di Antonio Pigliaru, di Michelangelo Pira e Antonello Satta. In senso antropologico vengono tutti dal mondo pastorale, escludiamo questa gente e vediamo cosa resta”.

La parte II verrà pubblicata a breve…

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